In un periodo storico in cui la critica d’arte vive un’inquietante crisi sul senso della propria funzione, esce una raccolta di interviste a critici intitolata What it Means to Write About Art (David Zwirner Books, pp. 560, $ 32,50). Curato da Jarrett Earnest, il libro è pubblicato dalla casa editrice di uno dei galleristi più esclusivi del mondo occidentale, David Zwirner. Vengono invitati a parlare trenta esponenti della categoria, tra cui diverse celebrità come Yve-Alain Bois, Douglas Crimp, Hal Foster, Michael Fried, Rosalind Krauss, Lucy Lippard, Barbara Rose, Peter Schjeldahl, Paul Chaat Smith, Roberta Smith, ecc. Ci sono giornalisti, storici dell’arte, accademici e diverse figure polivalenti; qualcuno ha anche curato mostre, tuttavia curatori e artisti sono stati deliberatamente esclusi anche se autori di testi critici. Il criterio di selezione è politicamente corretto, con un’equa rappresentanza di razza, genere e orientamento sessuale. Dell’insieme, il più anziano è John Ashbery (1927), il più giovane Huey Copeland (1976); mentre una quota considerevole è formata da nati tra la fine degli anni quaranta e i primi cinquanta, e questo si riflette nella ricorrenza di certi temi e riferimenti (Clement Greenberg, Donald Judd, il Minimalismo, l’arte concettuale, la French Theory, e così via). Nel complesso, il volume è pingue eppure mai faticoso; i contributi sono in ordine alfabetico secondo il cognome dell’intervistato, ma ovviamente si è liberi di saltabeccare, senza rispetto di una sequenza stabilita.
Nell’introduzione, Earnest paga il proprio debito di riconoscenza nei confronti di due opere concettualmente simili, pubblicate qualche anno fa: Performance Artists Talking in the Eighties (2000) di Linda Montano e Challenging Art: Artforum 1962-1974 (2000) di Amy Newman, e spiega che il libro è in parte composto da materiali da lui stesso prodotti principalmente per, e talvolta già editi su, la rivista statunitense «The Brooklyn Rail», in un arco di tempo che va grossomodo dal 2015 al 2018 – purtroppo manca un’indicazione puntuale di quando si è tenuta ciascuna intervista.
In ogni occasione Earnest dà prova di conoscere a fondo la storia dell’interlocutore di turno, ciononostante ha sempre il garbo, raro, di non usare l’intervistato per mettersi in mostra. Da quanto è possibile dedurre, le conversazioni hanno subito un limitato lavoro di manipolazione; risultano comunque ben tagliate e in generale esenti da lungaggini.
Il motivo conduttore dell’intera rassegna è la questione dello stile. Earnest crede che essendo arte e critica reciprocamente influenti, «profondamente relazionali» ed esposte alle volubili pressioni dei fenomeni sociali e storici, sia inutile invischiarsi in dispute sul giusto metodo, o sui sistemi interpretativi. Piuttosto, nella diversità di approccio e visione dei personaggi interpellati, il curatore decide di concentrarsi fin dal titolo – «Cosa significa scrivere d’arte» – sulla dimensione creativa della scrittura, per restituire senza eccessive forzature uno scenario eterogeneo e dinamico, e soprattutto per evidenziare le affinità tra il lavoro dell’artista e quello del critico, quest’ultimo tutt’ora molto spesso ipocritamente tacciato di essere un’attività parassitaria ai danni del primo. Dunque le conversazioni riservano un’enfasi particolare alla maniera in cui ognuno affronta la sfida di verbalizzare l’ineffabile della realtà materiale.
In un’ottica più prosaica, emergono numerosi intrecci professionali e spirituali, le simpatie e le avversioni, nonché i legami personali e affettivi tra gli intervistati. Verosimilmente ciò è una diretta conseguenza del fatto che la selezione è focalizzata sulla scena newyorkese. Qualunque sia l’estrazione, l’età e la notorietà degli intervistati, infatti, si tratta in definitiva di autori che gravitano intorno a New York e che parlano preferibilmente di artisti e vicende riconducibili a quell’ambito. Se da un lato ciò potrebbe sembrare riduttivo, dall’altro consente invece di apprezzare l’innegabile fertile promiscuità di un habitat culturale. D’altronde, il volume non pretende di offrire una campionatura universale.
Per il resto, molte notizie interessanti, curiose, ma nessuna rivelazione clamorosa. Gli intervistati sono tutti abbastanza smaliziati da non rinunciare mai davvero a forme evidentemente collaudate di autonarrazione e l’intervistatore si dimostra accomodante. Al riguardo, è divertente notare come coincidono gli estremi. Afferma Foster: «Per essere un buon critico bisogna avere un po’ di ressentiment, come avrebbe detto Nietzsche. Non rancore personale, ma antagonismo sociale. Ho intuito che la bellezza non era per tutti, che non tutti potevano possederla; e ciò mi ha fatto infuriare». Mentre Jerry Saltz (vincitore nel 2018 del Premio Pulitzer per la Critica) confessa: «Alle superiori ero una frana con le ragazze. Allora mi sono guardato attorno e ho visto che chi faceva teatro, faceva sesso; e chi faceva arte, faceva sesso. Quelli del teatro però erano un po’ troppo, ecco, dimostrativi . Così ho scelto l’arte».
Ancora a proposito di motivazioni, Lippard chiede provocatoriamente: «Hai mai incontrato qualcuno che dicesse di aver coltivato da sempre il desiderio di diventare critico d’arte?». No, a quanto pare nessuno da piccolo sognava di fare il critico d’arte, meno che mai contemporanea; anzi, pochi sono cresciuti in una famiglia in cui ci s’interessava di arte, meno che mai di arte visiva contemporanea; molti volevano piuttosto fare gli scrittori e più di uno, apparentemente, si è ritrovato quasi per caso a lavorare per, o persino a fondare, più o meno famose riviste di settore.
Il libro è anche una testimonianza di profonde trasformazioni sociali: da un’epoca in cui ci si poteva mantenere a Londra scrivendo recensioni per «Arts Magazine», si è ormai passati a una situazione di sconfinata libertà espressiva e risorse comunicative che però corrisponde a un drammatico impoverimento dei contenuti, appiattiti sulla promozione, causato dalla difficoltà di vivere con dignità esercitando la professione intellettuale, a meno di non predisporsi a soddisfare le richieste del mercato e a rinunciare quindi volontariamente alla facoltà di dissentire sul serio.
È un problema etico che alcuni dei critici intervistati sentono ed esplicitano. Roberta Smith, ad esempio, avverte: «tutto quello che hai realmente è una qualche forma di integrità e credibilità, che dipende sia da cosa scrivi che da come ti comporti». Quando il critico ha successo è facile che acquisti una controversa forma di potere, che fatalmente attira conflitti d’interessi; allora può diventare arduo tenere il lupo fuori della porta. «Ovviamente, ciò fa abbastanza ridere oggi che i critici possono guadagnare migliaia di dollari scrivendo testi di cataloghi per le gallerie d’arte». Ma questa naturalmente è una chance di cui beneficiano in pochissimi.
Per questa ragione c’è chi, come Dave Hickey, ha preso le distanze dal mondo dell’arte newyorchese. Lo stesso Hickey, oltre a preziose informazioni concernenti il suo procedimento di scrittura, sulla scorta della sua pluridecennale esperienza di critico espone un suo fondamentale principio deontologico: «All’inizio pensi: Io la vedo così, ma mi odieranno tutti. Poi, crescendo, ti dici: Ma fanculo, ho ragione io!».