Fu un successo Literary Theory. An Introduction di Terry Eagleton (1983, riv. 1996), quasi ottomila copie vendute, cifra forse mai raggiunta da un libro accademico di introduzione alla critica letteraria: formalismo, psicoanalisi, strutturalismo, postmodernismo, interpretati in chiave marxista. Il successivo Heathcliff and the Great Hunger (1996), una rilettura di Cime tempestose alla fredda luce della lotta di classe, sconcertò gli idealisti più appassionati. Eagleton, figlio di operai immigrati irlandesi, nato e cresciuto a Manchester, è stato allievo di Raymond Williams, fondatore degli studi culturali all’università di Manchester che dagli anni sessanta è il centro promotore della disciplina. Marxista e cattolico, ha insegnato nelle maggiori università inglesi e americane, duellando dalle pagine della «London Review of Books» con Richard Dawkins e Christopher Hitchens sull’ateismo (Reason, Faith, and Revolution: Reflections on the God Debate, 2009), con Martin Amis, il padre Kingsley Amis e la vedova di quest’ultimo Elizabeth Jane Howard in un ampio dibattito alimentato da una sventagliata di insulti. La forte vocazione didattica lo ha indotto a pubblicare anche su temi alquanto scontati come il romanzo inglese, il testo poetico, la cultura e la morte di Dio … In Perché Marx aveva ragione (Armando editore 2013) aggiunge la religione alla triade di classe, razza, gender, percorsi obbligati della critica marxista. Infine, a sorpresa, questa sortita nella cosiddetta cultura alta: Humour (Yale University Press, pp. 178, € 21,95). Argomento difficilissimo da trattare quello del comico e del riso, una prova non solo di erudizione ( tanti e dovunque ne hanno scritto) ma anche di stile. Ponderosi trattati accademici languono sotto strati di polvere, come accade agli scrupolosi contributi alla teoria generale del comico e del riso di Lucie Olbrechts-Tyteca, a Nash, a Propp … non letti neanche da Eagleton che pure cita da una ricca bibliografia.
Prima di avventurarsi su questo scivoloso terreno rileggiamo l’agile guida di Luigi Malerba, Strategie del comico (recensito su queste pagine) corredato dalle sue galline pensierose, e certe esilaranti pagine di Manganelli su Jerome, Wodehouse, Thurber. Circoscrivere il comico nelle sue tante manifestazione è il consiglio astuto di Malerba, forte dell’appoggio di Cicerone, Croce e altri, e così sfuggire alla trappola delle frequenti definizioni, troppe, divergenti, parziali. Ma Eagleton, che purtroppo lo ignora, abbonda in definizioni a cominciare dalla prima pagina in cui dà prova di un esprit de finesse linguistico effervescente: ventuno lemmi per riso, più altri undici strettamente fonosimbolici – da far ammattire un possibile traduttore. E inizia con William Hazlitt che nel suo saggio On Wit and Humour del 1819 ci dà una descrizione già comprensiva di varie teorie sul comico, passate e future. Il comico non è un enigma più di quanto non lo sia la poesia, assicura Eagleton, ma è non meno ubiquo della fata Mab: «… qualche volta sta in una domanda furba, una risposta salace, un ragionamento capzioso, una intimità ambigua, un ostacolo è furbamente evitato o abilmente ripresentato; qualche volta è contenuto in una espressione ardita, un’ironia corrosiva, un’ iperbole grandiosa, una metafora sorprendente, nella riconciliazione plausibile di alcune contraddizioni, o in un nonsense geniale …». Tutta la retorica è all’opera; ma anche il corpo con l’eloquenza muta della mimica e della gestualità, come ben sanno gli attori. La commedia è il suo ambito naturale, con le sue regole non scritte ma funzionali al sorriso o al riso del pubblico. Il Settecento inglese fu un secolo che elaborò teorie e pratiche letterarie affini alla raffinata comedy of manners (la commedia di costume) come il saggio e il romanzo – poco curando il comico di situazione, occasionale e guitto alla maniera di Shakespeare. Il filo rosso del comico scorre nel tessuto sociale e antropologico. Il riso, mai innocente, ha uno scopo, indicare il vero che si aggira sotto mentite spoglie. Eagleton divaga elegantemente sulle teorie pre- e post- freudiane. Non intende costruire una nuova, noiosa normativa, ma elaborare una critica del comico che poggi, laddove è evidente, sullo scoglio del reale. Così obietta al comico del carnevale esaltato da Bachtin, fenomeno occasionale ed effimero che pretende di essere una forma gnoseologica privilegiata, capace di cogliere la essenza ultima del reale. «La commedia, come la riproduzione meccanica per Walter Benjamin, disperde l’aura intimidatoria delle cose, e così facendo ce le avvicina; ma anche bandisce ogni affetto profondo, e ce ne allontana fino al punto che le possiamo afferrare senza perciò riferirle ai nostri urgenti bisogni e desideri. In questa assoluzione dalla pratica immediata, l’umorismo ha qualcosa in comune con l’arte».
Nello scivolamento da «comic» a «humour», la cui differenza in inglese è più forte che in italiano, si avverte lo spostamento di Eagleton verso un campo epistemologico diverso, quello coltivato dai teorici settecenteschi delle passioni, di cui il riso è parte integrante, anche se ambigua. Nel processo graduale ma continuo di acculturazione, sperimentazione, riformismo del Settecento, che invase tutti i campi dalla religione alla politica e all’economia, la società civile fu promotrice e vittima. Il puritanesimo, senza più potere politico, agiva nel profondo e il teatro fu il suo bersaglio più esposto. William Congreve (1670-1729), irlandese, commediografo di genio, il migliore del numeroso gruppo, si provò a difendere la sua arte (An Essay Concerning Humour in Comedy), tenendo a distanza le forme più basse del comico – parodia, pantomina, farsa, burlesco … – contro le violente accuse di Jeremy Collier all’immoralità e all’ateismo del teatro inglese. Lo seguirono saggisti, romanzieri, filosofi ( Steele, Addison, Dennis, Fielding, Goldsmith …) che proposero «sober and polite mirth» (un divertimento sobrio e beneducato). Hobbes e la sua teoria del riso come espressione (brutale) di superiorità fu corretta nel corso degli anni da Sterne, Hutchenson, Mackenzie teorico dell’uomo di sentimento, «the man of feeling», benevolo, tollerante, cosmopolita. Infine illuminista. «Humour» divenne la versione corretta di «comico», e acquistò gradualmente il senso supplementare di «good Humour», addirittura di «English Humour» al giorno d’oggi, secondo Harold Nicholson.
Eagleton però, fiero celta com’è, non risparmia gli antichi dominatori: «La libertà dell’inglese ‘free-born’ non sta in una vita di vigorose imprese o ambiziosi schemi di autoaffermazione ma nella libertà di essere se stesso. La libertà di essere lasciato solo ( in pace diremmo noi) – non tanto per perseguire qualche scopo straordinario senza nessun controllo, ma in modo che possa dedicarsi a qualche lavoretto in giardino o a collezionare statuette di plastica del grande Nelson». Se volete combattere l’antipatico buonsenso borghese, dovreste imitare il wit – altra accezione derivata dal comico – dell’aristocratico inglese, al tempo stesso elegante e brutale, così coniugando lo stile del gentleman con l’imperiosità a lui abituale. Preziose sono certe osservazioni sulle gags che vanno enunciate quasi in un languido sussurro. Per pigrizia la nobiltà inglese lascia cadere le consonanti finali, come in «huntin’» e «fishin’». Ma i popolani romani non sono da meno, e scarseggiando in stile, aumentano l’enfasi con una perentoria gestualità, anch’essa forse di nobile origine.