E vissero tutti felici e contenti. L’happy end end è una prospettiva che affascina a qualsiasi età, ma lo scrittore americano Michael Cunningham ha cominciato a nutrire dei sospetti fin da bambino. Così, una volta adulto, si è appassionato alle sorti di alcuni personaggi fiabeschi, sprofondati nell’ombra. Fra questi, c’è l’undicesimo principe della storia popolare rielaborata da Andersen e riportata dai Grimm. È quello che rimane con un’ala d’uccello perché la tunica intessuta nelle ortiche dalla sorella Elisa era priva di una manica. Non se la passerà benissimo, negli anni. Dovrà fare i conti con un’inedita pulizia delle piume, il prurito dei pidocchi, il sesso a pagamento, le peregrinazioni nei bar con occasionali compagni di bevute. Una vita da periferia, la sua.
È proprio lui a dare il nome alla raccolta di racconti Un cigno selvatico, appena uscita per La Nave di Teseo (traduzione a cura di Carlo Prosperi, illustrazioni di Yuko Shimizu, pp. 150, euro 18). «È meraviglioso essere felici. Chi non vorrebbe esserlo? Il problema sorge con la seconda parte della formula fiabesca – confessa Cunningham, articolando quel suo sospetto scaturito nell’infanzia – Per sempre non sembra un’aspettativa realistica per il futuro. Vale per chiunque e, in fondo, non è neanche desiderabile. Si è felici in alcuni momenti, in altri si è tristi. Fa parte della ricchezza della vita. Freud (che aveva ragione, almeno qualche volta) diceva che se tutti noi fossimo stati costantemente felici, non avremo potuto mai riconoscere la felicità in quanto tale. Sarebbe stata la nostra condizione e non avrebbe avuto nulla di straordinario. Sono d’accordo con il vecchio Sigmund. Credo nella felicità, ma confido in una esistenza che comprenda l’intera gamma delle emozioni».

Ospite al Salone del libro di Torino (venerdì nel percorso Off, presso Luoghicomuni Residenza Temporanea e domenica al Lingotto, nella sala Azzurra), Michael Cunningham, premio Pulitzer con Le Ore, il romanzo del 1999 divenuto poi un celebre film, reinterpreta qui dieci favole della tradizione. E lo fa pedinando tic, pensieri e perversioni di leggendari personaggi – da Raperonzolo al Soldatino di stagno – che si trovano, spaesati, a camminare sulle impervie strade del mondo contemporaneo. Un destino crudele, il loro, che per secoli era rimasto nascosto.

Riportata all’attualità (la Bestia al supermercato, la necrofilia del principe azzurro di Biancaneve, l’angoscia della strega di Hansel e Gretel, invecchiata male e senza amanti) ogni fiaba indaga i complessi rapporti di coppia, le imperscrutabili ragioni di un matrimonio, l’amore vendicativo e i contrasti tra genitori e figli… È questo il suo intento?
I personaggi delle fiabe tradizionali sono stranamente privi di qualsiasi motivazione. In Jack e il fagiolo magico, per esempio, la moglie del gigante lascia entrare il ragazzo nel castello una seconda volta, sapendo – dato che era già accaduto – che ha intenzione di derubare suo marito di tutto ciò che per lui è più prezioso. La domanda allora è: cosa sta succedendo in questo matrimonio? Oppure, prendiamo la figlia del mugnaio in Tremotino. Sposa proprio quel re che non l’avrebbe mai voluta se lei non fosse riuscita a trasformare la paglia in oro e a riempire tre stanze. E perché diventa la moglie di un uomo che era pronto a decapitarla se non avesse portato a termine il miracolo? In Un cigno selvatico mi sono preso l’impegno di colmare queste particolari lacune, di spiegare le ragioni (anche quando sono contorte) che spingono i personaggi ad agire in quel dato modo.

Le sue antifavole, come sono state definite, inseriscono nella trama l’intimità dei protagonisti: speranze, frustrazioni, desideri. Come accadeva nel romanzo «Le ore», l’attenzione si sposta sulle loro contraddizioni interiori e mutamenti d’animo. È il «flusso di coscienza» di Virginia Woolf. Una scrittrice che è stata un punto di riferimento per lei…
Non saprei spiegare onestamente perché io sia stato sempre così attratto da Virginia Woolf. Mi piace la sua insistenza sul fatto che il linguaggio sia parte integrante della narrazione; che le frasi stesse siano parte del contenuto di un romanzo; che il modo in cui viene raccontata una storia sia essenziale quanto gli eventi stessi. Ammiro poi la sua determinazione nel rievocare straordinarie storie di persone comuni, almeno all’apparenza. E la sua convinzione che non esistono individui «normali»; il modo di osservare le persone che abbiamo intorno è sempre insufficiente. Compiamo tutti un viaggio epico, anche il più anonimo fra noi. E pochi letterati, prima o dopo Virginia Woolf, sono stati così penetranti e accurati nel descrivere l’esperienza degli esseri umani, sia quando passeggiano in giro per Londra in una mattina di primavera, sia quando affiora la complessità della loro coscienza. Penso comunque che siamo attratti da certi scrittori nella stessa maniera in cui rimaniamo affascinati da alcune persone: permane un elemento di mistero. Due individui che incontriamo a una festa, o due autori importanti ci conquistano semplicemente in modo diverso, anche se entrambi sono degni di ammirazione e virtuosi… La lettura, dopo tutto, non è solo una competenza intellettuale, ma anche un’esperienza emotiva.

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Spesso, lei porta alla ribalta la figura dell’antagonista. I lettori devono guardare l’abisso umano, il lato oscuro della vita. Si considera l’anti-Disney?
Non proprio: sono cresciuto con Disney! Suppongo che – almeno per quel che riguarda i racconti di Un cigno selvatico – io possa essere contemplato come un’alternativa. Se Disney offre la versione più luccicante di queste antiche storie – che ci hanno accompagnato nella crescita – io invece mi concentro su un aspetto più oscuro, più «frastagliato». Ma ci tengo molto che rimangano in vigore entrambe le versioni.

Nel suo ultimo libro, c’è un riferimento al racconto «La zampa di scimmia», scritto da William Jacobs Wymark all’inizio del secolo scorso. Come mai, in questo caso, non si è rivolto a una leggenda popolare?
Adoro quel racconto. Lo so che rappresenta una «frattura» all’interno della collezione: è, in realtà, una storia horror e non una favola. Però avevo voglia di inserirla e così ho pensato: «È il mio libro, posso fare quello che voglio».

Esiste, dunque, un possibile punto di incontro fra letteratura moderna e fiaba?
La maggior parte della letteratura moderna può essere considerata come una fiaba, dipende da come la si guarda. Prendiamo Anna Karenina. Può essere la storia di una principessa maledetta da una strega conosciuta come «la società russa del XIX secolo». Oppure, Madame Bovary: somiglia a Cenerentola. Racconta di una ragazza che vuole andare a un ballo per incontrare un principe. Purtroppo le vicissitudini di Emma non conoscono happy end, come accade a Cenerentola, ma le due vicende non sono così lontane. Nelle fiabe e nei romanzi circolano le stesse storie che sono state tramandate di generazione in generazione.

Nel suo precedente romanzo, «La regina delle nevi», nonostante il titolo, la fiaba di Andersen non veniva trasposta ai giorni nostri, ma si potevano trovare al suo interno alcuni elementi di «raccordo»: il cambiamento di visione del mondo, la possibilità di un evento inatteso, magico… Ha importanza per lei il concetto di casualità, di deviazione del destino?
Mi sembra che le nostre vite siano un ibrido, un mix di volontà e destino. Accadono cose di cui siamo pienamente responsabili e altre invece vengono stimolate da forze che sfuggono al nostro controllo. Cerco di riflettere su questa mescolanza quando scrivo e certamente questo esercizio mi indirizza verso le favole. Come ha affermato Henry James, «è il personaggio o la determinazione di un incidente? È un incidente o l’illustrazione del personaggio?». Non riesco a spiegarmi meglio di James.

Alcuni suoi romanzi («Le ore» e «Una casa alla fine del mondo») sono diventati film. Come ha vissuto da scrittore le trasposizioni cinematografiche del suo lavoro?
Sono stato fortunato, in quanto sono diventati buoni film. Era un po’ un gioco d’azzardo. È sempre un gioco d’azzardo. L’autore concede i diritti a qualcuno che rispetta come artista e poi rimane a guardare cosa fa con i suoi personaggi e la sua storia. Non ritengo prezioso il mio lavoro né ho mai avuto un senso di protezione nei suoi confronti. E non mi interessa un adattamento «fedele». È più stimolante per me vedere quello che altre menti e differenti sensibilità realizzeranno con una storia, una volta che è finita. Mi piace l’aspetto della trasformazione e anche l’idea che altre persone – uno sceneggiatore, un regista, un gruppo di attori – tireranno fuori qualcosa dalla mia scrittura che io stesso non ho visto.

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«Un cigno selvatico» è stato illustrato dall’artista giapponese Yuko Shimizu. Ha qualche affinità elettiva con i suoi disegni?
Abbiamo avuto difficoltà nel rintracciare un illustratore. Eppure io sapevo molto bene cosa volessi. Cercavo una certa incantata darkness, suppongo che si possa dire una bellezza perversa che non fosse né graziosa, né sentimentale. Ho trovato Yuko su Internet. Ho semplicemente fatto una ricerca su Google con la parola illustrators. Mi è piaciuto il suo lavoro e il mio editore si è messo in contatto con lei. Le ha mandato il manoscritto e, con mia grande sorpresa e gioia, Shimizu ha accettato. Mi ha poi chiesto cosa io avessi in mente, ma le ho dato completa libertà di scegliere le immagini che più l’avevano colpita: poteva disegnare ciò che voleva. Il risultato è un libro illustrato di fiabe e, allo stesso tempo, hanno preso forma altri due libri insieme: uno composto dalle storie stesse e un secondo costituito dalle incantevoli opere d’arte di Yuko.