Per mitigare i cambiamenti climatici serve più Stato, ovvero un piano straordinario di investimenti pubblici chiamato Green New Deal (Nuovo Patto Verde), che metta l’Italia in grado di rispettare gli accordi di Parigi sul clima.

La proposta, elaborata dal Consiglio Nazionale della green economy (66 organizzazioni di imprese di diversi settori che rappresentano circa un quarto di chi produce beni e servizi ambientali), è stata illustrata agli Stati generali della green economy 2019 da Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile.

Ronchi, usare l’espressione Green New Deal significa una cosa precisa: assegnare un nuovo ruolo dello Stato nell’economia con sostanziosi investimenti pubblici per risolvere la crisi climatica ed economica. Sennò, perché scomodare Roosevelt?

Di questo si tratta, di un impegno politico straordinario che porti ad azzerare le emissioni nette dei gas ad effetto serra, obbiettivo estremamente ambizioso, salvaguardando al contempo la competitività dell’economia. In questo è centrale il ruolo degli investimenti pubblici. Il Green New Deal va concepito come una svolta storica del modello di sviluppo che si deve basare sulle energie rinnovabili al 100%, sull’efficienza energetica e sulla rigenerazione urbana. Il Green New Deal che proponiamo al governo prevede un piano decennale che complessivamente potrebbe portare circa 200 miliardi di nuovi investimenti sommando quelli pubblici, italiani ed europei, e l’effetto moltiplicatore che avrebbe su quelli privati, oltre ai Green Bond che si stanno sperimentando, con la conseguente creazione di circa 800 mila posti di lavoro.

La fine dell’austerity?

Sì. Il Green New Deal è in un’ottica espansiva.

E la Commissione Europea è favorevole?

C’è una dichiarazione di intenti, è già un’apertura, ma è tutta da verificare. Nei prossimi giorni ci sarà il riesame del Pacchetto europeo sul clima che chiede l’innalzamento dal 40% al 55% del taglio delle emissioni entro il 2030. Vediamo come intendono affrontarlo.

Il governo Conte bis aveva annunciato un Green New Deal, ma si è già arenato sulla plastic tax. Pensa che la leva fiscale per orientare la produzione e i consumi verso la sostenibilità possa funzionare, o abbiamo altre strade?

La leva fiscale può funzionare, ma bisogna saperla utilizzare bene. La plastic tax, così come è stata proposta, serve solo a fare cassa senza un collegamento ai benefici ambientali. Io la applicherei, ma più bassa e finalizzata al riciclo e all’aumento dei materiali compostabili. Applicare 1 euro al kg sugli imballaggi è francamente troppo. Basterebbero 30 centesimi di euro su tutte le plastiche tranne che sulla quota riciclata, in modo da incentivare quest’ultima.

Quali margini di manovra ci sono per l’applicazione di una carbon tax (una tassa sulle risorse che emettono anidride carbonica in atmosfera), come voi stessi avete proposto già lo scorso anno?

Senza carbon tax non ce la caviamo. La carbon tax è il cardine di una riforma fiscale che mira a alleggerire la tassazione sul lavoro per spostarla su combustibili e carburanti fossili, che rappresentano circa il 60% delle emissioni non coperte dell’ETS (Emission Trade Scheme, ovvero i grandi impianti industriali) dell’Unione Europea. Una carbon tax di 40 euro a tonnellata di CO2 significherebbe un aumento di 10 centesimi al litro per il gasolio e 8 centesimi per la benzina, e permetterebbe un introito di 10 miliardi di nuove entrate. Nella legge di bilancio ci sono già impegni in questo senso: fondi per la decarbonizzazione, l’economia circolare e le prime disposizioni di revisione dei sussidi dannosi per l’ambiente.

Però quando in Francia il presidente Macron ha proposto la carbon tax ha scatenato la protesta dei gilet gialli.

Appunto, come dicevo le tasse ambientali vanno proposte, spiegate e comunicate bene. Ci sono 10 paesi che hanno già applicato una carbon tax con buone compensazioni sociali ed evidenziando i benefici per l’occupazione e l’ambiente e lì sono state accettate.

Secondo la Relazione sullo stato della Green Economy 2019 l’impatto economico della crisi climatica in Italia è davvero preoccupante. Senza mitigazione, si prevede una perdita dell’8% del PIL nel 2050 e un significativo aumento delle diseguaglianze con danni 8 volte superiori nel Sud rispetto al Nord, e un ulteriore aumento della concentrazione della ricchezza…

Questo è un punto fondamentale che molti non hanno ancora colto. Il modello di crescita economica che abbiamo sperimentato in questi anni ha inceppato l’ascensore sociale, oltre ad aver causato la crisi ambientale. La crescita delle disuguaglianze logora la coesione sociale. E’ essenziale cogliere il nesso tra la crisi sociale e quella ambientale, come ha già fatto Papa Francesco nella sua enciclica Laudato Si’: se non si risolvono insieme, si affonda. Non è un caso che siano ricomparsi i sovranisti.

Per scongiurare questi scenari serve un piano di riduzione dei gas serra molto ambizioso per il prossimo decennio. Ma come possiamo affrontarlo se il processo di decarbonizzazione in Italia si è arrestato con le emissioni di gas serra che hanno ricominciato a crescere, se la crescita dell’energia prodotta con fonti rinnovabili si è affievolita, se il consumo di suolo procede malgrado il calo demografico e la stasi del PIL?

E’ innegabile che ci sia stato un rallentamento nel nostro paese: l’intensità energetica è peggiorata così come sono aumentate le emissioni specifiche del parco auto perché abbiamo in circolazione troppi Suv, a diesel e benzina, mentre le automobili elettriche sono ancora troppo poche. C’è stata anche una contrazione netta della produzione elettrica da rinnovabili. Per questo ora serve uno sforzo eccezionale.

C’è una generale mancanza di consapevolezza sulla reale portata dei cambiamenti climatici, malgrado la mobilitazione dei giovani, e con i negazionisti sempre all’opera a confondere le idee su temi estremamente complessi. Cosa prevede il Green New Deal per far crescere questa consapevolezza?

Il Green New Deal può funzionare solo con il coinvolgimento dei cittadini, non si può far calare dall’alto. Serve un processo partecipativo in cui aprire una vasta discussione nazionale con l’intervento di tutte le parti sociali. Noi proponiamo una discussione di almeno un anno per elaborare una grande strategia di lungo respiro e condividere le scelte strategiche per il prossimo decennio. Non basta la somma di azioni isolate, serve un grande disegno.

Sono pochissime le città che hanno adottato un Piano locale per il clima, soprattutto mancano i piani di adattamento. Chi deve farlo? Abbiamo in Italia le risorse umane e materiali, considerando che la spesa pubblica in ricerca e sviluppo ambientale dell’Italia, tra il 2010 e il 2016, è diminuita del 17% ed è tra le più basse in Europa?

Ci sono misure di adattamento che richiedono finanziamenti, oltre che misure amministrative e gestionali. Per esempio, per contrastare gli effetti delle piogge straordinarie vanno regolate le reti di deflusso delle acque o per attenuare le ondate di calore vanno create aree verdi e alberature. Non si tratta solo di mettere in sicurezza il territorio dal rischio idrogeologico, ma di attrezzarsi per gli eventi estremi. E, in generale, serve un maggiore impegno per la ricerca e l’innovazione orientate alla green economy, non fini a se stesse. Quello che serve non è uno smartphone nuovo ogni tre mesi, ma uno riparabile, riciclabile, che duri di più.