Il suo libro, scritto a quattro mani con lo scrittore libanese Sélim Nassib, ha aperto l’edizione 2024 di Libri Come, ieri pomeriggio. Giornalista, scrittrice, attivista, Asmaa Alghoul ha passato una vita a sfidare due oppressioni, quella coloniale di Israele e quella patriarcale e retrograda di Hamas. A Roma ha portato la sua storia, La ribelle di Gaza (208 pp, 16,50 euro) finalmente tradotta in italiano per e/o, mentre la sua Rafah guarda l’abisso.

Vorrei partire dalle prime frasi e le ultime del libro: Gaza, luogo vibrante dove ci si sente «vivi da un pezzo» e dove la guerra l’ha sempre vinta la sua gente. Dopo mesi di terrore e disumanizzazione, Gaza vincerà anche stavolta?
Sta già vincendo. La gente sta attraversando un genocidio eppure sa ancora creare vita dal nulla. Cuoce il pane, pianta verdure, sopravvive. Mentre parliamo ci sono persone sotto il fuoco israeliano, che vedono le loro case bruciare e che hanno paura. Da quasi sei mesi uno dei più potenti eserciti del mondo, la macchina da guerra israeliana, non riesce a prendersi Gaza. Parlo di questo quando scrivo dello spirito della mia gente. Israele cerca di uccidere quello spirito colpendo i modi con cui le persone si organizzano dal basso: un forno, una panetteria, la distribuzione di aiuti. Ma Gaza risorge sempre, come una fenice.

Nel libro ribalta un concetto chiave dell’identità palestinese, il diritto al ritorno. Casa per lei è Rafah. È il luogo della sua formazione intellettuale, del rapporto con uomini che hanno definito la tua vita, i nonni e suo padre. Che luogo è Rafah?
Oggi Rafah è una grande tenda per tutti i gazawi sfollati. È un luogo pericoloso, viene colpita di giorno e di notte. Ma per me è sempre Rafah. Quando vedo foto o video, osservo le strade e le riconosco, la strada dietro la mia scuola, quella dietro la casa di mia nonna, e mi sento là. Vorrei passeggiare per il mercato, stare tra le persone, sentire il loro odore.

Dall’incontro con Mahmoud Darwish, che racconta nel libro (lui che dice di odiare la sua più nota poesia, «Sono un arabo») emerge un elemento comune a molti artisti palestinesi: la narrazione politica come ulteriore limite e la necessità di liberare la produzione artistica dal dovere di narrare la questione palestinese. È così?
Mi ricorda quello che sostenne una volta Milan Kundera sullo scrivere in tempo di pace e scrivere in mezzo a una guerra. Quando scrivi in pace puoi creare. Quando accade in guerra, tutto quello che puoi fare è reagire. Scrivere è una reazione, mai un’azione. Nei primi tre mesi di offensiva, scrivevo ogni giorno, sentivo di avere tanto da dire. Poi a dicembre qualcosa è cambiato: dopo un ultimo pezzo per Le Monde, improvvisamente, mi sono sentita inutile. Né l’arte né la mia penna o i libri servono a qualcosa. Cosa può dire la scrittura che non narrino già le immagini? Apro il computer, ma non riesco a scrivere. Vorrei indietro la mia capacità di agire, come la vogliono tanti miei amici artisti, poeti, scrittori. Anche per loro è così: non c’è più nulla da dire, da scrivere.

Il racconto della repressione fisica e politica di Hamas viene narrato in modo crudo, tasselli di episodi che costruiscono una rete di controllo, che va dalla famiglia alla moschea. Una via di uscita è la cultura: lei narra la gioia e la voglia di ballare scatenati dalla vittoria di Mohammed Assaf ad Arab Idol o dei libri che hanno acceso il senso di libertà in amici e parenti.
Mio cugino, che racconto ne La ribelle di Gaza, ha letto nei libri il paradosso in cui viveva. Non ho mai perso la fiducia nella cultura, nel fatto che possa definire le scelte delle persone. A me ha permesso di accettarmi per quella che sono. Sono stata una donna difficile per le persone intorno a me, testarda, una combattente. Vorrei solo essere normale, ma quel mondo torna sempre e mi ricorda: come puoi essere normale, sei di Gaza. Devi scrivere di Gaza, affrontare il tuo destino.

Il filo conduttore del libro è la sua battaglia contro Hamas, che è uscito rafforzato dalle precedenti offensive israeliane. Cosa prevede per il futuro?
La guerra crea solo odio. Le persone diventano più conservatrici. Ognuno vuole vendicarsi ma vuole anche diritti. È tempo di cambiare mentalità. È tempo che i palestinesi abbiano la loro terra, solo allora potremo parlare di una pace giusta. La società gazawi è distrutta: ci sono 17mila orfani, famiglie smembrate, bambini dispersi. A Gaza, in una comunità che si conosce tutta, come è possibile non ritrovare più qualcuno? Quello che Israele fa è frammentare la società, le connessioni tra le persone, i mezzi di sopravvivenza. Dove c’erano scuole, ospedali, ong, anche movimenti contro il governo, non esiste più nulla. Israele sta tramutando Gaza da luogo di vita a luogo di macerie. La vuole rendere brutta. Eppure è incredibilmente bella, lo è sempre stata. Oggi ho visto un video di un luogo che amavo molto quando lavoravo per il quotidiano Al-Ayyam: Shuhada Street nel quartiere al-Rimal. Ci sono macerie ma non riesco a vederne la bruttezza. Non solo perché ha il mare o perché il suo cibo è spettacolare: amiamo Gaza perché è Gaza.