Venerdì scorso la Corte costituzionale ha pubblicato una sentenza sulla prescrizione redatta da un giudice diverso da quello al quale era stata affidata la relazione. Accade assai raramente. In questo caso il giudice relatore, Nicolò Zanon, è lo stesso che in uno dei podcast pubblicati sul sito della Corte – una “libreria” nella quale i giudici costituzionali spiegano al pubblico il loro lavoro – aveva posto il tema dalla cosiddetta «opinione dissenziente».

Professore, qual è il motivo per il quale lei non ha firmato la sentenza sulla prescrizione?

Perché avevo una tesi diversa rispetto alla maggioranza dei colleghi. Non svelo nulla di segreto, questa è l’unica ipotesi in cui il dissenso del giudice risulta dalla lettura della sentenza, c’è scritto infatti che il relatore è stato «sostituito» per la redazione. Quello che non si sa, perché resta nel segreto della camera di consiglio, è se altri giudici, e quanti, erano in dissenso come lui. Sul quesito che riguardava la sospensione della prescrizione la mia proposta al collegio era di segno diverso da quella adottata. È prevalsa la non fondatezza e non me la sono sentita di scrivere una motivazione che proprio non condividevo. È un caso estremo, tante volte succede di redigere pronunce che hanno un dispositivo diverso da quello che si immaginava all’inizio, ma che magari, discutendo con i colleghi, si impone come soluzione migliore.

Questa mancata firma si può considerare una forma di opinione dissenziente?

Purtroppo no, è una forma di dissenso che definirei autoreferenziale e introversa. Si è affermata in via di prassi: si può sapere che c’è stato un dissenso nel collegio ma non se ne conoscono le ragioni. A mio avviso è una soluzione largamente insufficiente.

Lei è favorevole all’introduzione anche in Italia, come nella corte suprema Usa, nelle corti costituzionali spagnola e tedesca e nella corte europea dei diritti dell’uomo, dell’opinione dissenziente?

Sarebbe un’innovazione con tanti vantaggi, ma anche alcuni svantaggi. Io sono favorevole. È la mia convinzione personale, non ne abbiamo parlato tra noi giudici e quando, molti anni fa, la questione fu valutata, si scelse di non cambiare le cose. L’attuale assetto viene infatti considerato utile a salvaguardare la collegialità perché i giudici rimasti in minoranza hanno l’incentivo a partecipare alla motivazione che non condividono, per migliorarla dal loro punto di vista. La collegialità è, anche qui, certamente un pregio.

L’introduzione dell’opinione dissenziente non rischierebbe, specie nei casi di decisioni prese a stretta maggioranza, di rappresentare in pubblico una Corte costituzionale spaccata?

Questo rischio c’è, ma io credo che l’opinione pubblica interessata abbia raggiunto un grado di maturità sufficiente per comprendere che le decisioni sulla costituzionalità di una legge non sono un’operazione matematica. Sono al contrario il risultato di un’interpretazione che può dipendere da prospettive culturali e concezioni diverse del diritto e dell’intervento della Corte. Forse si potrebbe accettare senza drammi l’esistenza opinioni diverse anche sulla Costituzione, malgrado debba esserci una decisione. Non mi sfuggono i valori da preservare, la certezza del diritto e l’autorevolezza delle decisioni della Corte. Temo però che al fondo delle ragioni di chi non ammette il dissenso ci sia un’idea un po’ dogmatica del diritto. Invece le opinioni di minoranza possono gettare un seme nella riflessione dei giuristi e diventare nel futuro le opinioni di tutta la Corte. Nessun dramma, anche perché nella stragrande maggioranza dei casi la Corte decide in maniera unanime e non serve votare.

Il giudice che firma l’opinione dissenziente diventerebbe il punto di riferimento di chi non condivide la decisione della Corte, non teme che tutto il collegio possa essere trascinato nella polemica?

Anche in questo caso non nego il rischio, tutto può essere strumentalizzato. Ma la forza degli argomenti costituzionali dovrebbe servire, al contrario, a rendere le decisioni più accessibili, più trasparenti e persino più comprensibili rispetto al segreto della camera di consiglio. La società italiana è più matura di quanto immaginiamo e nei paesi dove l’opinione dissenziente è prevista queste strumentalizzazioni non avvengono o avvengono molto di rado.

Lei ha redatto la sentenza che ha cancellato alcune parti di una legge elettorale, il cosiddetto Italicum. Cosa pensa della proposta di anticipare il giudizio di costituzionalità sulle leggi elettorali a prima della promulgazione, visto queste leggi finiscono puntualmente davanti alla Corte?

Sarebbe un’innovazione di rango costituzionale che ci attribuirebbe una nuova e specifica competenza e avvicinerebbe la Corte costituzionale italiana a quei supremi tribunali elettorali che esistono in alcune esperienze sudamericane, per esempio in Messico. A mio avviso sarebbe una stranezza, renderebbe la Corte una sorta di co-legislatore in materia elettorale e la butterebbe nell’agone politico proprio sulla più politica delle leggi. Sono scelte del legislatore, è chiaro, ma la mia opinione è che per la Corte si tratterebbe di un «dono avvelenato».

La Corte ha ormai aperto una strada ai ricorsi diretti dei singoli parlamentari sul procedimento legislativo e sempre più spesso la possibilità di ricorso alla Consulta viene utilizzata nel dibattito politico come un avvertimento preventivo nei confronti della maggioranza. Non vede il rischio che la Corte possa trasformarsi non dico in una terza camera, ma quasi in un tribunale delle minoranze parlamentari?

Il tema è vedere se sia utile fare come in Francia, dove dagli anni Settanta è stata introdotta la possibilità per la minoranza di fare ricorso preventivo contro una legge appena approvata e prima che sia promulgata. Da noi sarebbe probabilmente un modo per sollecitare una maggiore attenzione alle procedure e al rispetto delle prerogative costituzionali di tutti i parlamentari. Ma vi sarebbe il rischio di attirare la corte nel mezzo di polemiche politiche relative a scelte appena compiute dal legislatore.

Qui da noi, però, si sta affermando un monocameralismo sostanziale e le polemiche così come i ricorsi annunciati o presentati riguardano sempre più spesso il metodo di approvazione delle leggi e non il merito dei provvedimenti.

Mi permetto di dire che anziché ricorrere all’aiuto esterno di istanze giurisdizionali o para giurisdizionali, il parlamento dovrebbe avere uno scatto di orgoglio al suo interno e difendere il suo ruolo e la sua centralità con la propria autorevolezza. Sarebbe la strada migliore, senza la necessità di immaginare chissà quali riforme.