Sebbene registri accuratamente il pensiero del suo tempo, Hoffmann non è un filosofo: diffidente verso l’Illuminismo – così ‘brillante’, da impedire la visuale, afferma – preferisce affidare le tracce della sua poetica alle narrazioni. Così, se in Pezzi fantastici alla maniera di Callot prende a modello un pittore che oscilla tra la levità dei caramogi e la denuncia degli orrori della guerra e, nei Notturni, celebra i territori oscuri della mente proiettandosi verso un personale Acheronte, incomprensibile per i primi romantici di casa tra Dresda e Jena, nei Fratelli di Serapione affida la ricerca estetica alle voci degli amici che, come in un Glockenspiel di sole parole, appaiono e scompaiono per fargli ora da specchio ora da interlocutore.

Artisti e fantasmi
Hoffmann sviluppa così nei Serapions-Brüder il ‘principio serapiontico’, un Baedeker dalle infinite pagine per un viaggio in cui – scrive – ogni passo dà vita ad «esperimenti arditi»: l’artista prende le mosse dalla realtà di voci e relazioni, poi, progressivamente, sconfina nell’ampio territorio del possibile, dell’orroroso o del fantastico e, come nel Libro di Giobbe, chi narra e chi legge potrà fondare sulla sorpresa e sul terrore una saggezza nuova. Perché questo sia possibile, bisogna idealizzare «la pazzia come fosse uno splendido dono del cielo» – lo dice il protagonista di «L’eremita Serapione», il racconto che introduce il volume – e bisogna inoltre sviluppare un progetto di opera d’arte totale, che già Schelling aveva teorizzato e che diventa bombardamento sinestetico, trasfigurazione musicale, infinita seduzione delle immagini.
Satura di artisti, fantasmi, sogni e follie, questa opera che riflette tutta la ricchezza del «periodo artistico tedesco» (e anche la sua agonia) viene ora proposta da L’Orma con un titolo che ne accentua la laicità, I fratelli di Serapione Racconti e fiabe (I tomo, a cura di Matteo Galli, pp. 504, € 35,00), a mettere ordine nella vicenda editoriale felice e strampalata che ha accompagnato la immensa fortuna di Hoffmann in Italia.

La prima traduzione delle sue opere in Italia risale al 1835: 4 volumi, «premesso un discorso di Gualtiero Scott», che celebra la genialità dello scrittore tedesco promettendo al lettore narrazioni stupefacenti e soluzioni spettacolari: «Di tutti i sentimenti ai quali può rivolgersi il romanziero – scrive Scott nella polverosa introduzione – non ve n’ha alcuno che sembri servirlo meglio dell’amore al meraviglioso».

Ha inizio così la fortuna di Hoffmann nel nostro paese con una stupefacente quantità di edizioni, spesso di opere smembrate senza rimorsi, collazionate per lettori di ogni età e immaginazione, ostinatamente fedeli e appassionati. Solo alla fine degli anni Sessanta, Einaudi (siamo nel 1969) propone le opere di Hoffmann in tre corposi volumi, Romanzi e racconti a cura di Carlo Pinelli e con l’introduzione di Claudio Magris. Ma è una eccezione; i racconti di Hoffmann, sparpagliati tra editori diversi e con formati anche molto creativi (ricordo una singolare versione del ‘Bildungsroman’, Considerazioni filosofiche del gatto Murr in cui – era la collana Felinamente & C. di Mursia – in cui il testo veniva amputato con disinvoltura di tutte le parti che non riguardavano il saccente felino), stentano ad approdare alla forma-raccolta che pure l’autore aveva progettato per loro pensando a una epica inedita e ‘moderna’, senza dei e senza eroi, priva delle imponenti scenografie del classico e dei valori imbalsamati dell’antico, ben stretta, pur con qualche squarcio timido di natura, tra vicoli di città gotiche, case piccolo borghesi o, più spesso, tra le pieghe della mente dei protagonisti.

Anche i ventotto racconti che compongono i Serapions-Brüder (I Confratelli di San Serapione per Pinelli), hanno avuto fortune diverse. Alcuni sono notissimi, come «Lo schiaccianoci o il re dei topi», «Le miniere di Falun» o «La Signorina di Scudéry», altri, invece, sconosciuti e mai ristampati, sono caduti nel dimenticatoio. Praticamente cancellata dopo l’edizione dei Millenni è stata invece la cornice amicale e teorica che li racchiude: una cornice corposa e un po’ astrusa che ripercorre la storia ‘vera’ di un convivio di letterati – con aggiunte e defezioni, sono gli amici Hitzig, Salice-Contessa, Koreff, provvisoriamente Chamisso e, ovviamente, Hoffmann –, «una banda di matti» che si incontrano a partire dal 12 ottobre del 1814, giorno di San Serafino, per narrare storie meravigliose e riflettere insieme sul mondo e sull’arte. Dopo quattro anni di lontananza, il gruppo, disperso «dall’epoca fatale che abbiamo attraversato» – scrive Hoffmann – si incontra nuovamente: è il 14 novembre 1818, giorno di San Serapione, e Hoffmann decide di affidare il gruppo alla protezione di questo anacoreta e al suo disprezzo per ogni atteggiamento filisteo. Come per altri viaggi fantastici che sfidano i confini della ragionevolezza, anche i nostri letterati hanno una esperienza traumatica da superare: non la peste del Decamerone e neppure il rischio della vita di Sherazade, bensì le guerre napoleoniche che emergono continuamente nel testo con il loro portato di rumore, paura, visioni e che inducono a trovare nell’arte «conforto e salvezza per i cuori travagliati degli uomini».

È la fine di un mondo, l’inizio asmatico di un altro, l’esigenza di fuggire da una dimensione di immensa fragilità e interrogarsi sull’avvento di una nuova stagione di armonia – e non mi sembra casuale che la celebrazione dell’incontro berlinese cada, polemica e ribelle, a ridosso del Congresso di Aquisgrana del 1818 che vuole fondare la pace futura sui «legami della fratellanza cristiana».

Un collage di stili
Assonanze lontane che forse potranno far entrare Hoffmann nella più che mai apprezzata cerchia di autori che usano l’alluvionalità seriale del racconto come antidoto alle crisi, premiando così l’impresa dell’Orma che prevede la pubblicazione in 10 volumi e in 10 anni di lavoro (sette sono già trascorsi dall’inizio del cantiere) dell’opera completa di Hoffmann con traduzioni ‘moderne’, apparati di note, guide minuziose di lettura, che proiettano l’ombra resistente dello scrittore sulla modernità.

Se i primi libri avevano un traduttore ‘titolare’ in Matteo Galli, con interventi significativi di Giulia Ferro Milone per Fiabe, e in Luca Crescenzi per Gli elisir del diavolo, i due tomi dei Fratelli di Serapione sono frutto di un interessante esperimento che, come Eros, è figlio di povertà e ingegno: affidati alle cure di ventisette germanisti – giovani e vecchi, titolati o meno, variamente esperti di romanticismo e traduzione – i racconti danno vita a un collage di stili traduttivi e filologici, con un gran numero di «vivaci affondi ermeneutici», scrive Matteo Galli, molti riferimenti e qualche ridondanza che finisce per accentuare l’eterogeneità dei racconti hoffmanniani, oltre a restituire una bella immagine della germanistica nostrana, un po’ impoverita tra le riforme, ma capace di generosità e passione.