L’affermazione del romanticismo in Germania avvenne a conclusione di una lunga lotta, ma non fu mai veramente completa. Fu lo sfinimento del campo avversario, non da ultimo dopo la morte di Goethe, a decretarne il successo, quando già all’orizzonte si delineavano tutt’altre idee e si affermavano interessi e impulsi che ben presto lo ridussero al silenzio. Tutta la vicenda della sua evoluzione del resto, dai prodromi di Jena e Berlino fino a Heidelberg e oltre, era già stata la storia di un continuo conflitto con le resistenze di una cultura, neoclassica e settecentesca, poco incline a lasciarsi sovvertire da un gruppo di intellettuali e artisti, magari geniali, ma tutto sommato facili da contrastare e costringere alla marginalità.

Difficoltà minori il romanticismo conobbe in campo musicale, poiché il suo linguaggio poteva facilmente essere interpretato in continuità con quello dell’epoca precedente, largamente venato di Empfindsamkeit, la cultura del sentimento razionalista dominante nella seconda metà del Settecento. Questa continuità – che implica ogni sorta di sovrapposizioni – merita di essere considerata quando si studiano gli intrecci che collegano le grandi figure della musica e della letteratura tedesche di inizio Ottocento.

Uno di questi intrecci, giustamente celebre, coinvolge E.T.A. Hoffmann, che nell’ambito della sua attività di collaboratore della «Allgemeine Musikalische Zeitung», agli albori della sua carriera di scrittore, si trovò a recensire uno dei massimi risultati dell’arte beethoveniana, la Quinta Sinfonia, celebrandola per primo come capolavoro assoluto. La recensione, mai tradotta per intero nella sua prima forma, appare ora nella puntuale traduzione di Benedetta Saglietti all’interno di un volume composito, Il regno dell’infinito (Donzelli, pp. VIII-112, € 19,00) in cui trovano spazio un po’ troppi elementi (un’intervista con Riccardo Muti, due testimonianze sulla prima esecuzione della Sinfonia e il saggio di Berlioz a essa dedicato apparso nel 1862, quando nessuno più dubitava del valore di quell’opera).

La traduzione viene presentata come «edizione critica», ma non lo è fra l’altro nel libro non c’è traccia del testo originale (che pure avrebbe potuto trovarvi spazio). Desta interesse invece l’introduzione, dove Benedetta Saglietti muove da una ricostruzione puntuale delle circostanze in cui la sinfonia beethoveniana venne presentata al pubblico viennese il 22 dicembre del 1808, per poi addentrarsi nell’analisi della recensione di Hoffmann: l’idea – non originalissima – è che Hoffmann faccia di Beethoven un precursore del romanticismo, di cui egli stesso, il recensore, sarebbe grande esponente. Ma è un abbaglio e, per di più, dovuto alla pervicacia con cui la curatrice decide di ignorare che le recensioni hoffmanniane nascevano dalla sua attività di compositore, non certo – come sostiene – dal mero bisogno di denaro: notarlo avrebbe messo in evidenza uno dei grandi paradossi della recensione, che celebra Beethoven come genio romantico e poi ricostruisce puntualmente il razionalissimo disegno architettonico della sua opera, la familiarità con Haydn (citato insieme a Mozart come più moderno dei compositori) e, insomma, lo inserisce in quella «tradizione classica» che era proprio il riferimento indiscusso dello Hoffmann compositore.

Le chiacchiere romantiche con cui Hoffmann apre la sua recensione – all’epoca merce corrente e ormai quasi corriva – sono le parole à la mode con cui il recensore desta l’attenzione del lettore prima di analizzare con dovizia di dettagli l’edificio della composizione.
Hoffmann ha fatto spesso ricorso in seguito a questo stratagemma anche nei suoi racconti dove, guarda caso, i personaggi romantici fanno di frequente una brutta fine: si perdono in fantastiche prigioni, si suicidano o finiscono sepolti vivi andando in cerca di feticci inesistenti anziché abbracciare ciò che di buono hanno a portata di mano.