Cosa significa leggere Shakespeare, oggi che film, serie Tv, pubblicità, ne amplificano nei modi più impensati la presenza, ne distillano trame, parole e personaggi in gocce di intrattenimento da assumersi prima e dopo i pasti come il telegiornale? Il recente e modesto Macbeth dell’australiano Justin Kurzel è stato presentato con lo slogan «Macbeth al tempo del trono di spade», dove il riferimento è alla serie televisiva Game of Thrones, prodotta dalla statunitense HBO (del gruppo Time Warner). Un successo planetario, che ormai da cinque «stagioni» dei drammi shakespeariani di storia inglese viene facendo un uso tanto spericolato quanto, al fondo, fedele. Per non parlare ovviamente dei palcoscenici, che con gli schermi grandi e piccoli si ibridano più che volentieri.

La performance finale del Macbeth prodotto nel 2013 da Kenneth Branagh per il Festival Internazionale di Manchester, e da lui stesso interpretato nel ruolo del protagonista, è stata diffusa in diretta nelle sale cinematografiche europee secondo la formula «solo per un giorno» dal National Theatre Live. L’anno dopo fu il Coriolanus di Josie Rourke, direttrice artistica di un teatrino fringe di Londra, a godere del suo giorno cinematografico live. Il protagonista Tom Hiddleston saldava lì l’immagine dell’eroico generale romano a quella del superoe criminale Loki, già da lui interpretato nel film blockbuster prodotto dai Marvel Studios e distribuito dalla Walt Disney Pictures. E si potrebbe continuare con il Coriolano prodotto e interpretato da Ralph Fiennes, girato in Serbia e vistosamente contaminato con l’attualità bellica.

difficile credere che tutto questo rimescolio visuale non abbia la sua parte nella nuova attenzione che quest’ultimo dramma «romano», tradizionalmente meno frequentato del Macbeth (con l’eccezione se non ricordo male di T.S. Eliot), sta oggi ricevendo da parte degli specialisti. Rivisitata come «effetto speciale», la tragedia del potere si naturalizza, scopre il proprio fondamento antico e universale. E si qualifica come tema accademico.

Se il lettore comune, il common reader di woolfiana memoria, evolve in spettatore comune, in common viewer modellato dai grandi e piccoli schermi, e la mutazione arriva a toccare persino la fino a ieri riluttante Accademia, non sarà che un semplice leggere Shakespeare – se pure ancora si desse – è diventato operazione di retroguardia? La domanda è meno compiacente all’attualità di quanto possa sembrare. Nel suo Perché leggere i classici?, Italo Calvino elencava quattordici definizioni del termine «classico» applicato alla lettura. Due mi paiono singolarmente calzanti riguardo a Shakespeare. Noto per inciso che nel libro non vi è uno specifico capitolo dedicato al poeta e drammaturgo del quale ricorrerà nel prossimo aprile il quattrocentesimo anniversario della morte, e che il più intrigante dei riferimenti shakespeariani vi si incontra a proposito del medico cinquecentesco Gerolamo Cardano, il cui trattatello De consolatione, tradotto in inglese nel 1573, contiene un passo in cui si parla della morte come se fosse un sonno, visitato o meno da sogni. Singolare coincidenza, che ha spinto alcuni studiosi ad avanzare l’ipotesi che il libro di questo dottore curioso di sogni e premonizioni sia quello che il Principe di Danimarca tiene fra le mani quando la domanda fintamente sollecita di Polonio gli interrompe la lettura. Tanto più che l’opera di Cardano è dedicata al conte di Oxford, uno dei più accreditati tra i supposti intestatari del marchio «Shakespeare».

Tutto torna. Né la magia degli incastri sembra essersi esaurita: borgesianamente, l’evasivo quanto fatidico «Parole, parole, parole» è ricomparso, assieme al tema del «dormire e sognare»», nella famosa canzone di Mina (del 1972), per poi stabilizzarsi nel lessico quotidiano. Infiniti sono i percorsi se non proprio della filologia, di sicuro della detective story shakespeariana.
È curiosa l’assenza di Shakespeare dal libro di Calvino, perché almeno due delle definizioni di «classico» lì contenute si attagliano perfettamente al drammaturgo di Stratford: l’ottava – «Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso» – e la tredicesima: «È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno». Ma forse Shakespeare non è autore da leggersi in quanto classico.

Forse, né il pulviscolo di discorsi critici che da quattro secoli a questa parte circonda il suo nome, né il rumore di fondo prodotto dalle sempre più intime contaminazioni del canone con elementi ad esso estranei – non ultima l’ormai globalizzata attività traduttoria – sono riusciti a renderlo tale. Piuttosto che scrollarsele di dosso, queste concrezioni dell’attualità Shakespeare le assorbe e le assimila, risultando a tal punto – secondo la felice formula di Harold Bloom – «inventore dell’umano», che ancora prima di cominciare a leggerlo lo troviamo già scritto dentro di noi.
È dunque l’idea stessa di lettura a complicarsi, quando l’oggetto è Shakespeare. Mi spiego così il senso di delusione che provai al ginnasio, quando per la prima volta incontrai Amleto, Otello, Cleopatra e tutti gli altri nei classici tre volumi Sansoni con la sovracoperta rosa, che con invidiabile sicurezza offrivano in traduzione le Opere all’epoca ritenute «complete». Cosa c’era di così eccezionale in quelle storie? Non era comunque così che andavano le cose a questo mondo?

A lungo mi sarei poi vergognata della mia insensibilità, che in realtà era solo l’ingenua riprova del mio essere già stata «inventata» da Shakespeare. Colonizzata da Shakespeare, potrei dire, riappropriandomi di quella memoria coloniale che è parte integrante della genealogia diasporica e plurale del mondo in cui viviamo, a oriente come a occidente. E non spaventi la distanza culturale, perché quella di Shakespeare è una colonizzazione imperiale, che attraversa barriere cronologiche, spaziali e linguistiche. Lettore ben più «forte» di me, Harold Bloom introietta senza ansie questo dato totalizzante e lo proietta a tutto campo sulla storia dell’umanità: Amleto – scrive – non è solo «poesia sterminata», poem unlimited, ma quella tra le opere di Shakespeare che nel corso del tempo è divenuta «così familiare, persino a chi non l’abbia mai letta, o vista a teatro (o in versione cinematografica), che a leggerla bene si ha l’impressione di star rimovendo gli strati di vernice che sfigurano un antico dipinto». I pigmenti sfiguranti sono tuttora aggressivi al punto da depositarsi su letture inesistenti, su letture che non sono vere letture ma semplici rumors: voci circolanti «in stati non nati e accenti ancora sconosciuti», come potremmo dire parafrasando Cassio nel Julius Caesar.

Cominciamo a capire che, come espressione puramente linguistica, «leggere Shakespeare» copre molte e diverse operazioni. Certo, come ogni lettura che si rispetti, anche quella di Shakespeare comporta una discesa dentro se stessi, ma qui a complicare le cose si aggiunge il fatto che queste parole sono state scritte per essere pronunciate ad alta voce. Due dati apertamente contrastanti vi convivono: da una parte risultano così fortemente colonizzanti da creare in chi legge l’illusione di starle producendo autonomamente; dall’altra sopravvive in esse la voce originaria, canto delle sirene tanto più seducente perché nessun Ulisse potrà mai ascoltarlo. E bastasse la voce, sia pur con le sue mille pronunce e intonazioni, comprese le odierne possibilità di riproduzione tecnicamente assistita: ci sono anche le pose, i gesti, le espressioni, i costumi, il trucco… persino le traduzioni passate e a venire, come quella monumentale di Tutte le opere che Franco Marenco sta curando per Bompiani: quattro volumi con testo inglese a fronte, dei quali sono già usciti i primi due (Le tragedie, pp. LXIV-2974, euro 49, 00; Le commedie, pp. XLVIII-2400, euro 55,00). C’è tutto, in quelle parole, compresi i «rumori di fondo» che esse stesse producono. Che turbavano quella trasfusione diretta da spirito a spirito immaginata da Charles Lamb, eccentrico e geniale saggista romantico, come ideale lettura shakespeariana.

Nella seconda metà del secolo scorso questa complessità visivo-sonora venne risolta mediante la formula di Shakespeare «uomo di teatro». In essa gli studiosi rendevano formale omaggio al primato dell’arte scenica, effimera e socializzante, sulla pratica solitaria della lettura. I gloriosi volumi dello Arden Shakespeare – sui quali tante generazioni di docenti e studenti hanno sudato – offrivano, in posizione dominante già sulla pagina, rispetto alle varianti riportate in basso negli apparati, la lettura del curatore, il quale era stato libero di costruirsi i propri Amleto, Pericles, Lear. In compenso, al regista veniva lasciata la possibilità di scegliere, fra le tante lezioni, quella più corrispondente alla propria visione. La pagina si voleva ancella della scena e alla scena demandava la cura della voce, cui gli editor cavallerescamente rinunciavano, sicuri che a regolamentare il processo rimanesse – roccia salda in un mare tempestoso – il testo da loro «stabilito». Established. Nemmeno contraddicendolo il regista sarebbe arrivato a intaccarne l’autorità.

Nel controverso saggio Sulle tragedie di Shakespeare considerate in relazione alla loro adattabilità al palcoscenico (del 1811), Lamb aveva puntualizzato che «gloria dell’arte scenica è la personificazione della passione e delle sue vicissitudini».

In quanto conduttrice di passione la parola shakespeariana era «un medium, spesso quanto mai artificiale», tra il personaggio e il lettore-spettatore, il quale ritrovando dentro di sé almeno una parte di quella passione, poteva facilmente scambiare per facoltà innate della propria mente quei poteri che in realtà era la parola shakespeariana a infondergli dall’esterno. Lo Shakespeare «inventore dell’umano» di Bloom è già contenuto in questa felice mislettura così lucidamente diagnosticata da Lamb all’inizio dell’Ottocento. Senza quella produttiva violazione del confine tra il dentro e il fuori di sé, il pubblico moderno non sarebbe mai nato.

Ma dalla giaculatoria post-sessantottina di «Shakespeare uomo di teatro» proprio il pubblico restava escluso. La mediazione della parola era pensata tra la pagina e il palcoscenico. «Abbiamo rinunciato a un sogno per andare in cerca di una irraggiungibile sostanza», aveva notato Lamb negli anni della delusione post-rivoluzionaria. Ma quanta nitidezza vi era in quel sogno! E quanto, negli anni della nostra giovanile rivoluzione, il mito materialistico della sostanza avrebbe offuscato quella parola, interpretandone la qualità di medium in senso bassamente strumentale: «dalla parola alla scena», dicevamo, dimentichi che del medium è propria una qualità estensiva, non limitativa, della percezione umana.

Understanding Media, the Extensions of Man, aveva intitolato il suo libro McLuhan nel 1964, che impropriamente in italiano suonò Gli strumenti del comunicare. Prima tra le estensioni lì considerate era la parola, parlata e scritta.

L’illimitata estensibilità della parola, di pari passo con quella delle nostre facoltà percettive, fa del teatro «un mezzo infinitamente fluido», come scrivono oggi i curatori del New Oxford Shakespeare (1986 e 2005), pubblicato dalla Oxford University Press a cura di Stanley Wells, Gary Taylor, John Jowett e William Montgomery. Il criterio seguito è quello di recuperare i testi quali originariamente furono preparati per la scena dall’autore, o in alcuni casi dagli autori. Viene così operata una epocale quanto silenziosa ricongiunzione tra scrittura e voce. Tra parola e scena.

Ancora una volta, è la scelta dell’editor a decidere, ma la novità di questa rivoluzionaria edizione è nell’aver ritrovato il teatro all’interno, e non a lato, dei singoli testi. Il gap romantico tra sogno e sostanza viene non già rinnegato, bensì sanato e reso funzionale al testo. Un’impresa titanica, che ha qualcosa dell’evocazione spiritica. Che facendo piazza pulita dell’antica possibilità di scelta tra lezioni parallele, ci restituisce testi assoluti, spogliati degli apparati critici. Per esempio – ed è il caso più emblematico – offrendoci un Amleto intrepidamente decurtato di passi celebri (qui per rispetto stampati a parte alla fine), meditativamente eccellenti, acutamente rappresentativi della psicologia e antropologia rinascimentali, ma che Shakespeare, dopo averli scritti, avrebbe deciso di espungere dalle sonorità della rappresentazione. Il teatro viene così portato dentro il testo critico stabilito in maniera strutturale, non più occasionale, con un mutamento di prospettiva che sicuramente influenzerà la critica e la filologia shakespeariane.

Che la casa editrice Bompiani si stia facendo carico di introdurre il pubblico italiano, e non necessariamente dei soli specialisti, a questa nuova interpretazione del corpus shakespeariano, del quale vengono offerte nuove e valenti traduzioni orientate secondo i criteri dell’edizione, è sicuramente un’acquisizione per la nostra cultura, e lascia bene sperare, nietzscheanamente, quanto all’avvenire delle nostre scuole.