C’è uno strano silenzio nelle due zone abitate a sud e nord del ponte crollato. Genova non è certo una città silenziosa, il porto, le industrie, un flusso automobilistico insostenibile. Echi lontani del traffico arrivano ancora dalla via Aurelia e dalla strada parallela, ma nulla a che vedere con l’infernale frastuono che avvolgeva la valle del Polcevera per l’intera durata dei giorno. Ventiquattro ore di rumori e di inquinamento atmosferico che si ripete per 365 giorni causato da un traffico ingovernato.

Quello che avvolge il quartiere è un silenzio pieno di dolore per la tragedia dei numerosi morti, per i feriti ancora ricoverati nelle strutture sanitarie, per coloro che porteranno per sempre i segni di una catastrofe, per le famiglie che perderanno la propria abitazione ospitata fin qui nei palazzi con i cornicioni demoliti per far posto al mostro di cemento che rappresentava il «progresso». Persone in carne e d ossa che hanno sopportato in tanti decenni -come ha ben scritto Norma Rangeri – un tributo disumano. La modernità è crudele con chi non può evitarla.

Il temporaneo e doloroso silenzio pieno di incognite per il futuro sembra non interessare più. I cantori della modernità vogliono ricostruire in tempi rapidissimi il ponte così com’era. Esigenza giusta per una città che rischia altrimenti di bloccarsi, ma sorprende che a parlare finora siano stati solo i dirigenti di Autostrade per l’Italia o tecnici di varia provenienza, uomini in un modo o in un altro implicati o responsabili della grande tragedia. Vogliono forse strappare l’assenso della popolazione che ha ben altre priorità in questi giorni. Solo uno tra questi tecnici ha azzardato a dire che occorrerebbe una -peraltro inefficace, data l’altezza del ponte – barriera antirumore.

Renzo Piano, senatore a vita oltre che straordinario architetto, ha pensato bene di allargare il discorso. Va benissimo ricostruire il ponte, ma gettiamo lo sguardo sul fatto che si dovrà mettere mano alla trasformazione di un pezzo di città, fatto di case, di attività spesso dismesse, di relazioni umane. E allora perché non provare a ribaltare l’ottica fin qui veicolata come unica e indiscutibile e mettere sul piatto della bilancia della ricostruzione del ponte anche l’esigenza di aprire una nuova fase della vita della città, che sia in grado di mantenere, garantire, santificare si potrebbe dire, quel silenzio per la vita di ogni giorno di tanti adulti, giovani e bambini.

Pensare ad una città che rispetta i diritti di tutti, a prescindere dalla loro capacità economica di potersi scegliere un’abitazione in un’area meno inquinata, impone di ricostruire non un nuovo ponte, ma una galleria artificiale che impedisca al rumore di riappropriarsi della valle del Polcevera. Ce ne sono molte ormai nelle nostre città, ma sono per lo più brevi e discontinue. Genova potrebbe aprire una nuova fase. Sarebbe un’opera che costerebbe molto di più di un ponte normale per il peso maggiore e gli oneri di sicurezza. Ma si potrebbe coniugare per la prima volta la realizzazione di una grande infrastruttura con un’altra ben più grande opera, quella di costruire una città a misura delle persone che la vivono, con un ponte del silenzio in rispetto delle vittime innocenti del crollo.

Lo scarso rispetto per la dignità dell’uomo dimostrato dai due vicepresidenti del Consiglio nella vicenda dell’immigrazione dimostra che non è da quelle due parti politiche che possono venire segnali nuovi. Questi segnali possono invece emergere dalla popolazione che vive da decenni disagi insostenibili. A patto che la politica ricominci ad interessarsi dei loro destini.