Volano gli stracci: inutilmente i pompieri cercando spegnere l’incendio e minimizzare la lacerazione. Dopo aver abbandonato, furibondo, la sua gracile creatura politica, Scelta civica, Monti il sobrio si spoglia del loden e passa all’accetta. «Sono stato tradito da quelli che mi avevano chiesto di portarli o riportarli in Parlamento. Anche da Casini». Il bel Pier non si fa pregare e risponde per le rime: «Sono accuse ridicole. Il suo atteggiamento nei confronti dell’esecutivo è stato rissoso. Non gli chiedo di ritirare le dimissioni perché la cosa non mi riguarda. Siamo partiti diversi».
Non se le mandano a dire solo a mezzo stampa o tv, i duellanti. Ne parlano di persona, nello studio di Casini, e al vertice partecipa anche il ministro Mauro, regista dell’operazione che ha spinto Monti verso la porta d’uscita, e il ministro pdl Quagliariello. Non si ricuce niente, e del resto nessuno ci sperava. Monti conferma l’irrevocabilità del passo. I senatori di provenienza Udc o legati a Mauro preparano un gruppo autonomo, che dovrebbe contare 11 o 12 senatori. La pattuglia montiana, smarrita e abbandonata, invoca il ritorno in campo del condottiero deluso e giura che il civico progetto è ancora valido: poco probabile che ci creda davvero.
Il gioco, invece, è già chiuso. Il progetto di Monti, affondato dagli elettori latitanti prima che dalla rissosità dei leader, arriva ora al capolinea anche ufficialmente. I volponi democristiani già stanno giocando la nuova partita.
Ci vuole una bella faccia tosta per giustificare l’esplosione con le diverse sfumature di appoggio al governo Letta: Mauro e Casini al 101%, il Sobrio fermo all’85% o giù di lì. Imperterriti, i contendenti ci provano lo stesso. Lo fa Monti, spiegando che la sua Sc non poteva e non doveva appiattirsi tanto sul governo. Lo fa, dalla sponda opposta, Casini, bacchettando l’insufficiente passione del professore per il suo successore a palazzo Chigi.
E’ fumo negli occhi. I fatti stanno lì a raccontare una realtà diversa. Le tensioni, certo, ribollivano da mesi, la fine era nota già dal giorno della sconfitta elettorale. Però la pentola è saltata 24 ore dopo l’incontro tra Berlusconi e Mauro nel quale il ministro ha proposto al Perseguitato liste comuni per le elezioni europee. E sarà un caso che a stretto giro Casini annunci che lui, sulla decadenza del martire, ancora non ha deciso come votare? Non che quegli 11 voti ex montiani possano fare alcuna differenza, ma non si può certo pensare che il Pdl si allei, in un domani non lontano, con «i carnefici». La ciliegina sulla torta la depone Alfano: «Noi vogliamo ribadire il bipolarismo, con il centrodestra da una parte e il centrosinistra dall’altra. Vogliamo costruire il grande centrodestra con Berlusconi sul modello della nella Casa delle Libertà: un partito unito e compatto, il Pdl che presto diventerà Forza Italia, affiancato alle altre forze del centrodestra».
E’ un ponte verso i nuovi popolari e i falchi non abboccano alla sterzata lealista di Alfano. «Angelino ha ragione, ma la condizione per proseguire questa esperienza di governo è che il Pd rinuncia a eliminare Berlusconi», esordisce Bondi. Poi arriva Fitto, il capocorrente, e scende nel dettaglio: «Se ho ben capito siamo tutti per il bipolarismo, tutti convinti che le politiche su economia e fisco debbano essere quelle da noi sempre ribadite, tutti per una limpida alternativa al centrosinistra, tutti convinti che occorra lealtà piena verso Berlusconi e i nostri elettori».
Parole al limite dell’ironia esplicita, e che denotano la scarsissima fiducia dei «lealisti», convinti che Alfano, cosciente dello scarso appeal elettorale delle sua colombe, stia solo cercando di restare al riparo del partitone d’Arcore. Per impostare, di lì, un gioco di sponda con «i Popolari» di Mauro e Casini che trasformerebbe piano piano il Pdl in una sorta di moderna Dc, coerente sezione italiana del Ppe.
Una cosa sono le parole e una cosa i fatti. I fatti, per i falchi, sono due e due soli: il braccio di ferro sulla legge di stabilità e la reazione al voto sulla decadenza di Berlusconi, che potrebbe segnare il momento della verità in questo eterno congresso strisciante del Pdl. Che però, da ieri, è diventato qualcosa di diverso: l’assemblea costituente, giocata anch’essa nella pratica e senza bisogno di mozioni formali, della nuova destra italiana. Perché su una cosa tanto i «lealisti» e i «governisti» del Pdl quanto i «popolari» di Casini sono concordi: il tempo di re Silvio volge al termine. Si approssima quello di spartirsi l’eredità.