Da inizio anno il collettivo teatrale veneto Anagoor sembra essere stato colpito beneficamente da una bulimia creativa che li ha portati nell’arco di sei mesi ad occupare le scene con ben quattro produzioni, tra novità e riprese «in progress» degli anni scorsi. Detto così potrebbe sembrare che gli Anagoor abbiano sul groppone decenni di attività e di spettacoli. Invece, non è così, anche se a contarli come giovane compagnia emergente non ci si discosta molto dal lavoro che stanno compiendo di svecchiamento di alcune consuetudini, queste sì da troppo tempo abituate a vedere nel panorama teatrale italiano. Prima di conoscere e osservare più da vicino la biografia e il metodo di lavoro degli Anagoor attraverso la conversazione con il loro regista, Simone Derai, premiato di recente dalla rivista Hystrio come miglior regista per Virgilio brucia!, è necessario premettere le seguenti noterelle che contrassegnano il loro itinerario artistico. Proprio la «ripulitura» teatrale dell’Eneide virgiliana, operata con il bisturi drammaturgico religioso, ideologico, transnazionale e sentimentalmente perverso di Dante, Broch, Kiš, Carrère, dà la stura alla visione di quel metodo che contraddistingue i loro allestimenti: plurilinguismo della narrazione, uso del tableaux vivant come espressione drammaturgica – ciò li avvicina inconsapevolmente ad alcune soluzioni visive sperimentate sia a teatro sia nei film da Straub &Huillet – video come supporto didascalico, musica come personaggio aggiunto e che trova piena compiutezza a quello che – per ora – può essere messo a referto come il loro capolavoro: «Socrate il sopravvissuto/come le foglie» (dall’omonimo romanzo di Antonio Scurati e «innesti» da Platone e Nooteboom. Debutto al Festival delle Colline Torinesi e a fine luglio al Festival Drosera). Ed in attesa di vederli al lavoro come assistenti di Aleksandr Sokurov in Marmi di Josif Brodskij nel rinnovato cartellone del Teatro olimpico di Vicenza, fermiamoli in mezzo una teoria di numi tutelari: da Pasolini, recuperato nell’inedito L’italiano è ladro (che merita, per le suggestioni progressive e gli aggiustamenti che verranno, quasi un discorso a parte), Buzzati (sottoposto nel suo dispiegarsi iperrealistico nel nome del collettivo), la critica e la storia dell’arte (Roberto Longhi osservato a distanza nel singolare video-saggio-musicale Et manchi pietà tratto, come a chiudere una relazione circolare, dalla biografia di Artemisia Gentileschi di Anna Banti) e infine, il teatro di Castellucci, Motus, Teatro Clandestino e di altri, come dice Derai, «prima raccontati e poi visti».
Dunque è stato un avvicinamento al teatro, un vero innamoramento, per procura?
Proprio così. È stato il bel rapporto avuto con l’insegnante liceale di greco e latino – che era in collegamento con il Laboratorio Teatro Settimo di Gabriele Vacis – ad introdurci nel mondo del teatro. Era affamata di teatro e non mancava di raccontare le sue esperienze. Ho ascoltato raccontare l’Orestea di Castellucci, prima di vederla a Parigi lo scorso anno; la mia formazione è stata mediata in un certo senso dalla critica e dell’ascolto di chi poteva assistere a questi spettacoli.
A piccoli passi quindi è venuto a formarsi in te il desiderio di far teatro e di andare a ricercare una sorta di fratelli maggiori?
Non solo in me. La data cruciale è il 2000, quell’anno nasce Anagoor, siamo io e Paola Dallan, scegliamo il nome dal titolo di un racconto di Buzzati, Le mura di Anagoor. Poco tempo dopo, ci raggiungono tra gli altri Marco Menegoni, Moreno Callegari, Mauro Martinuz, Giulio Favotto. L’esperienza avuta al Liceo di Castelfranco Veneto, da dove veniamo, ci porta poi ad avere diverse esperienze. Io studio architettura a Venezia, vengo influenzato da Manfredo Tafuri. Purtroppo lo seguo per poco perché all’improvviso muore. Ciò che ho appreso da lui resta però. Proseguo gli studi e comincio a frequentare compagnie di commedia dell’arte e filodrammatiche. Con me c’è Paola. Mentre ad esempio Marco frequenta la scuola d’attore dell’Avogaria. Bisogna, d’altronde, tenere conto di qual era la situazione teatrale veneta negli anni 90. C’era da un lato il fenomeno Paolini con il Vajont, dall’altro le biennali confinate a Venezia, mentre la provincia era paragonabile nel caso specifico ad un’area desertica. Da questo punto di vista la frequentazione delle filodrammatiche ci ha dato un buon training se vogliamo.
Poi, prima di fondare il collettivo, avete ancora esperienze diverse?
Sì. Io mi laureo allo Iuav, Paola va al Conservatorio, ci si incontra ed è molto strano non per il teatro, che ci viene solo raccontato, ma per la storia dell’arte, la fotografia. Da ciò ci inventiamo un linguaggio: ora diventato un lessico familiare.
Ciò che affermi, di rilevante importanza e che denota un possesso non comune di mezzi sia nella messa a progetto dell’opera sia nella sua realizzazione, esige una spiegazione in più. Pare che ci sia un ragionamento sul cinema, sul modo di vedere o meglio di saper vedere
Guardiamo moltissimo cinema. Ci rendiamo perfettamente conto che l’influenza del cinema su di noi è molto forte. Ci piace molto Pasolini. Ultimamente è il rapporto con la storia e con il poetare presente nei film di Sokurov ad affascinarci. Ancor prima del lavoro che intraprenderemo con lui. Comunque, il nostro è un lavoro continuo di esplorazione di opere, di selezione, di messa a confronto sia durante la scelta dei testi sia nella loro stretta analisi; è un lavoro di cucina, dove i problemi del testo, delle stesse parole e le loro innumerevoli connessioni, una volta messe in gioco pure in modo critico ed esplosivo, devono arrivare alla giusta ebollizione. Insomma, non è un laboratorio chimico cui assistere impotenti. Anzi. Noi guardiamo alle crepe, osserviamo l’avanzamento dell’opera e se non basta travasiamo un testo nell’altro. Sovrapponiamo da artigiani diversi piani di lavorazione, già in pre-produzione apriamo finestre video. C’è tutto un tempo di costruzione che impedisce nei fatti poi di tornare indietro. Se poi ci si accorge in fase di creazione e montaggio la cosa non funziona la si scarta. Immediatamente.
In questo entra prepotente un modo di intendere la scrittura e la drammaturgia di un testo o di ciò che è stato a monte scelto?
Non scrivo o scrivo poco, solo raccordi tesi a smussare le parole prelevate, prese da testi altrui. Le parole devono essere giuste, sono scelte e subiscono un ricercato controllo. È un lavoro meticoloso, condotto su testi letterari, saggistici o provenienti da altri ambiti. Sono pruriti iniziali, non ci sono scene, né video, prima di aver incontrato la letteratura. Di aver letto libri, sono loro che compongono, di volta in volta, una specie di costellazione da osservare attentamente; poi non tutto viene visto, alcune cose, alcuni autori, restano nascosti – sono i nostri nomi tutelari – ed è la rete testuale che va a comporsi davanti ai nostri occhi che detta quei segni che diventeranno teatro.