I numeri sono larghissimi in parlamento, un po’ stretti invece al governo. Draghi deve fare i conti con la legge che stabilisce un numero massimo di quindici ministri “veri”, già raggiunto con l’annunciata promozione di Garavaglia che ieri si è visto assegnare un generico «coordinamento di iniziative nel settore del turismo» ma presto riceverà delega e portafoglio. Per la stessa ragione l’«innovazione» di Colao resterà senza portafoglio e quella di Cingolani continuerà a chiamarsi «ministero dell’ambiente e della tutela del mare» in attesa di una legge che lo trasformi, con altre deleghe, nel ministero più o meno super della «transizione ecologica». Ai quindici «con portafoglio» si aggiungono gli otto senza, e così per rispettare un altro limite (65 componenti del governo al massimo, soglia in teoria derogabile con legge ma è chiaro che non sta bene) ci sono solo dieci posti per i viceministri o ministre e ventidue per i sottosegretari e le sottosegretarie. Un po’ pochi, meno di uno a ministero. Pochissimi dovendosi fare i conti con le richieste dei partiti, che in questo giro non aspetteranno la comunicazione del presidente incaricato anzi già avanzano le loro richieste. Anche perché la selezione dei ministri ha aperto tre crepe che andranno chiuse a suon di nomine.

La prima più evidente crepa è lo squilibrio di genere. Che non è un gesto di cortesia ma un obbligo di legge: «La composizione del governo deve essere coerente con il principio sancito nel secondo periodo del primo comma dell’articolo 51 della Costituzione». Draghi dovrà nominare molte donne. E dovrà scegliere molto al sud, visto lo squilibrio nordista dei nuovi ministri (zero ministri siciliani). Infine, terza crepa, dovrà ristorare i delusi, rintracciabili un po’ ovunque: nei partiti (Cambiamo +Europa, Iv, M5S), nelle correnti (i salviniani, i berlusconiani di destra), nelle minoranze (gli autonomisti, gli eletti all’estero).
Per queste nomine ci sarà un Consiglio dei ministri subito dopo la fiducia in parlamento (il decreto lo firmerà poi il capo dello stato). Per il dibattito parlamentare sono state decise le date di mercoledì, al senato, e giovedì, alla camera. Il problema numerico in questo caso è opposto: l’abbondanza. Draghi potrebbe restare quasi senza opposizione, ricevendo al massimo una cinquantina di voti contrari al senato (su 321) e una sessantina alla camera (su 629).

Dopo di che arriveranno le prime decisioni. La più urgente riguarda il decreto milleproroghe che scade il primo marzo e per la crisi è rimasto incagliato nelle commissioni prima e quinta della camera. Gli emendamenti sono stati falcidiati a più riprese, l’ultima volta in una riunione che ha visto per la prima volta insieme la nuova maggioranza. Restano questioni divisive, in testa quella della prescrizione. In teoria gli emendamenti di Fi, Iv e Cambiamo +Europa contro la riforma Bonafede adesso avrebbero i numeri per passare. Ma gli ultimi segnali dicono che anche renziani e forzisti, dopo il Pd, sono in ripiegamento tattico, disponibili a concedere un rinvio ai 5 Stelle per non battezzare il nuovo governo con una spaccatura. Il governo potrebbe chiedere un’approvazione tecnica, il tempo stringe, di un unico maxi emendamento con dentro le questioni più condivise, come l’integrazione salariale per i cassintegrati Ilva. La scadenza immediatamente successiva è quella del 25 febbraio, data per la quale il nuovo governo dovrà prendere una decisione sulle misure anti Covid. Scade il divieto di spostamento tra le regioni, l’esordio sarà una nuova stretta? La lega è attesa al varco.