È morto un barbone. E con questo a Roma fanno 10 dal 29 novembre, da quando è arrivato il freddo. Il manifesto mi chiama a mezzogiorno per chiedermi di scrivere questo articolo ed era morto il barbone di Piazza Irnerio. Alle sei è morto pure quello al parco della Resistenza.

È morto un barbone.

«Un’altra vita spezzata dal freddo» scrivono su un importante giornale nazionale dove lo chiamano «senza fissa dimora». E perché? Magari stava sempre lì, dentro il suo cartone. La sua dimora fissa, il metro quadrato di marciapiede che si era imparato a memoria, la bottiglia di plastica con l’acqua o il cartone di vino, un cuscino fatto di buste di plastica.

È morto un barbone.

È morto il più povero del camposanto. Per un ricco è una maledizione morire. Gli eredi si litigano l’eredità. Le case al centro che ti fanno campare gratis, i conti in banca e i soldi vincolati. Pensa un po’ che fregatura per lui! Beato il poveraccio che pochi hanno saputo che è morto. Scrivono: è morto uno, avanti un altro! E invece no. Per un ricco morì è come pagà il conto alla vita: paga sì, ma la vita gli ha dato qualcosa. Invece il poveraccio paga e dalla vita non ha avuto niente.

Che fa il poveraccio? Passa dalla morte a un’altra morte. E non ci sono problemi di successione. Sulla lapide ci scriveremo che è defunto un disgraziato qualsiasi.

È morto un barbone.

È quello che mi chiedeva i soldi quando imboccavo la scalinata della metro e non avevo tempo per pescare 50 centesimi nella tasca. È quello che parlava male l’italiano, che puzzava anche da lontano, che stava seduto mezzo addormentato dietro a un cartello scritto sbagliato. È quello che una volta si è messo a cantare. Cantava talmente forte e così tanto stonato che hanno chiamato le guardie.

Altri sono caduti nel biondo Tevere, si sono incendiati nel sacco a pelo per una sigaretta accesa e un colpo di sonno, sono stati asfaltati da qualche automobile che l’ha colti in fallo fuori dalle strisce pedonali.

Quando se ne va un barbone non è solo lui che scompare. E nemmeno il suo sguardo un po’ supplichevole e un po’ disincantato. Da quell’angolo di città si sfila l’ombra dal marciapiede. Una tasca grigia nella quale la memoria è una stracciatella che mischia gioia e dolore.