Se la politica non fosse l’arte del possibile, i miei primi candidati sarebbero Claudio Abbado e Francesco Tullio Altan. Oppure Pierre Carniti, grande italiano, uomo vicino ai lavoratori e agli ultimi, al quale temo molti l’abbiano giurata da quando, all’indomani della morte accidentale di Giuseppe Pinelli, sottoscrisse una dura denuncia contro «i commissari torturatori, i magistrati persecutori, i giudici indegni». Allora, inchinandomi al principio di realtà, faccio un altro nome: Guido Rossi.

Per due motivi, anzi tre. Innanzitutto tra tanti tristi professori, Rossi è uno che le cose le sa, le capisce, le intuisce e (perché) le legge storicamente. Non è un tecnico, sa cos’è la critica. Ed è meno fazioso di chi, sposata una causa per interesse o convinzione, condanna le ragioni degli altri ancora prima di ascoltarle.

Poi per la provenienza. Circolano nomi da brivido, che non ripeto per carità di patria. Il ceto politico conferma la propria sordità. Non è affatto detto che, avendo i partiti preso una sacrosanta scoppola, i loro dirigenti capiscano che l’unico modo per salvare pelle e faccia (e rintuzzare l’assedio grillino) sarebbe fare largo al meglio che c’è nel paese. Che raramente, di questi tempi, circola tra le loro file. Rossi sa di politica, ma non è di questa politica. Rimane negli annali la battuta con cui nel ’99 bollò il sostegno di D’Alema alla scalata di Colaninno a Telecom Italia: «A palazzo Chigi c’è l’unica merchant bank dove non si parla inglese». Quattordici parole per liquidare intrallazzi e mediocrità senza pari.

Infine, appunto, le idee. Rossi non è comunista, ma almeno dice cose serie su questa crisi. Non ci tormenta con le giaculatorie sul rigore. Al contrario, sostiene che quella del «libero mercato efficiente» è la più perniciosa delle ideologie. Pensa che la finanza senza regole stia travolgendo le democrazie occidentali. E scrive da anni cose come questa: «Il contrattualismo sfrenato del capitalismo finanziario è la forma più moderna di un regime feudale riottoso e indisciplinato, nel quale, sotto i poteri centrali degli Stati-nazione, disorganizzati e svigoriti, dominano sempre più nuovi vassalli potenti: le grandi imprese, autentiche regine della globalizzazione». Ve l’immaginate uno così a colloquio con Berlusconi, Monti e Bersani?