Rem Koolhaas a Porto, Portogallo, in una foto (part.) di Steve Pyke

 

Per Rem Koolhaas la città non sembra avere più l’appeal di una volta. Certo, gli uffici di OMA (Office for Metropolitan Architecture) continuano a schierare i loro edifici ipermoderni un po’ dovunque nel mondo: l’hub commerciale POST Houston nel downtown della città texana, il centro culturale WA Museum Boola Bardip a Perth o il complesso uffici Tenjin Business Center a Fukuoka, solo per citare quelli inaugurati di recente.

Mentre, però, ribolle l’intensa attività edificatoria dei suoi architetti e ingegneri, Koolhaas, con la sua think-tank AMO, ha voluto avvicinare le aree collocate ai margini o lontane dalle città, dirigersi tra produzioni agricole intensive di pascoli, allevamenti e piantagioni, e verso gli immensi giacimenti d’estrazione di minerali fossili, o ancora in parchi naturali e deserti. Insomma, l’architetto olandese, giunto quasi alla soglia degli ottant’anni, si è interessato a quella parte di mondo che è sempre stata all’esterno della realtà urbana, distaccandosi dagli oggetti della sua ricerca teorica e progettuale precedente, dalla cultura dello shopping alle infrastrutture urbane.

Ha affidato così l’incarico a Samil Bantal e alla numerosa squadra di ricercatori e di studenti dell’Harvard Graduate School of Design e di altre università (Pechino, Wageningen, Nairobi, Waseda, Eindhoven) per una ricognizione che fosse la più estesa possibile e di complicata, questa sì, «grandezza», perché il Bigness, per usare un concetto da lui coniato, non riguarda solo l’architettura, ma anche il bulimico e ossessivo desiderio che egli mostra nell’interessarsi a tutto ciò che accade nello spazio abitabile del nostro pianeta.

Al Guggenheim Museum di New York era approdata pertanto, nel 2020, con la mostra Countryside – The Future, l’impegnativa ricerca di AMO, che ha avuto non pochi problemi causa Covid. Il catalogo, dal titolo Countryside – a Report (Taschen, pp. 352, € 20,00), nel formato taccuino disegnato da Irma Boom, ne è il risultato conclusivo. È solo, infatti, nel racconto delle molteplici storie incontrate che si comprende appieno il lavoro svolto: cosa è diventato e cosa sarà «il regno dimenticato» della campagna nelle maglie del neoliberalismo.

Per l’occasione è stato disegnato un planisfero con segnati in rosso i luoghi investigati. Guardandolo ci si rende conto della dimensione globale della ricerca, che ha riguardato le più rilevanti trasformazioni nei territori rurali e nelle aree «non urbane» e remote, che oggi compongono il 98% della superficie terrestre. Questo nuovo planisfero si aggiunge al precedente «¥€$», ideato da Koolhaas nel 1999 mettendo in fila i segni delle divise mondiali per affermare la tesi che «l’integrazione delle economie» ha «ridotto a zero» l’autorità dell’architettura. Anche quest’ultimo si ricongiunge, dopo vent’anni, alla mappa che sempre l’ispirò per la raffigurazione dei fenomeni urbani: il «diagramma» di Costantinos Doxiadis.

Nel 1970 l’architetto greco indicò nel suo planisfero con i colori nero e grigio le aree che nel futuro avrebbero avuto la maggiore concentrazione abitativa, mentre in bianco quelle a più scarsa densità. Sembrerebbe che dopo avere compiuto il periplo del mondo per sostenere l’impossibilità per l’architettura contemporanea di ritornare a un’«aperta e vera speculazione visionaria» (quella posseduta da Doxiadis), Koolhaas abbia pensato bene di ritrovarla lì dove i processi di densificazione (ampiamente compresi e incoraggiati da lui stesso) non si sono ancora presentati. In una sola parola: la campagna.
Prima che questa fosse «ignorata» dalla «civiltà, metropolitana, orientata al capitale, agnostica, occidentale», scrive a introduzione dei cases studies raccolti nel libro, «la campagna era una tela su cui ogni movimento, ideologia, blocco politico e singolo rivoluzionario proiettava le proprie intenzioni». Ancora nel secolo scorso, non c’è stato paese imperialista, dall’URSS di Stalin all’America di Roosevelt, che non abbia programmato «vasti sforzi» per l’agricoltura. Inoltre, per i «pensatori postcoloniali e rivoluzionari, da Fanon a Malcolm X», era familiare l’esistenza della dialettica città-campagna che in seguito non ha più interessato nessuno.

Anche Koolhaas, impegnato a scoprire la Città Generica, non trasse alcuna riflessione sul fatto che nel 2050 il 70% dell’umanità vivrà nelle città e che solo il 2% della superfice terrestre è oggi abitato in modo intensivo. Tuttavia, forse per allinearsi con l’odierno spirito green, l’architetto olandese avverte che «la ricetta sempre più cupa della Silicon Valley per la Smart City» è un risultato insoddisfacente, avvertendoci dei danni che l’«Urbanizzazione Totale» provocherebbe alla campagna assorbendola e trasformandola in «un retroterra della civiltà urbana».

Esempi a riguardo non mancano: uno su tutti, la miniera a cielo aperto di lignite nella foresta di Hambach, che per alimentare una serie di centrali elettriche ha desertificato il vicino centro di Manheim, oggi in parte occupato, com’è accaduto a Camini, in Calabria, da rifugiati in cerca di asilo. Analoga storia di sfruttamento è ciò che in Cina è accaduto con l’occupazione del terreno agricolo da parte della logistica della piattaforma Taobao per migliaia di piccoli produttori, oppure con serre estese per migliaia di ettari che consentono cicli intensivi di coltivazioni. Dove il piano quinquennale cinese non trova spazio in casa, si è sviluppato in Africa orientale, dove gli affari di Pechino procedono, pur se con ritmi più lenti, nella costruzione di infrastrutture ferroviarie e stradali per accelerare il processo di industrializzazione di quelle regioni.

Ci sono poi, dall’altra parte dell’emisfero, i nuovi business parks costruiti con cinico sfregio dell’ambiente. È il caso del Tahoe Reno Industrial Center, innalzato nel paesaggio montuoso del fiume Truckee, al confine della California e del Nevada. Sopra trentamila ettari di pascolo si sono insediati senza pianificazione la Gigafactory di Tesla e i volumi, grandi, bianchi e disadorni, di Google, Wal-Mart o Blockchains. Scrive di TRIC Koolhaas: «la sua noia è ipnotica, la sua banalità mozzafiato».

È probabile che abbia ragione nel dire che sarà questa «nuova architettura postumana», distesa in orizzontale nel paesaggio rurale, ciò che prefigura l’avvenire dell’extraurbano. Lo impone l’avvento della robotica e dell’intelligenza artificiale, anche se non è sufficiente riconoscere la violenza degli effetti della deregulation e dell’opportunismo dei capitali finanziari nei confronti delle risorse naturali e dell’ecosistema.

Argomenti, quelli intorno alle possibili alternative, poco rilevanti per Koolhaas, il quale si è limitato sempre a fotografare i fenomeni, meglio a «registrare» in modo compulsivo quello che accade. Anche la sua passione per la regia cinematografica, non la definì «un’estensione del registrare»? Pertanto, inutile vederlo schierato tra coloro che si oppongono criticamente alle prospettive di un paesaggio agricolo artificiale e dominato dalle monocolture! La macchina AMO funziona come organizzazione per dare visibilità mediatica alla «siamese» OMA, che all’interno della domanda del mercato è sempre pronta a formulare la sua migliore offerta.

Nella polarizzazione del discorso tra il «così com’è» e il «cambiare tutto», la posizione di Koolhaas è «sperimentare» cosa l’architettura può continuare a essere sotto «qualsiasi forma». Anche nel «regno» della campagna, dove il desiderio è di avere «un posto migliore nel mondo», anche se non riusciamo ancora a immaginarlo.