«Ci portarono in una baracca, lì giù in fondo. Che era chiamata la sauna, dove venimmo spogliati di tutto, letteralmente di tutto. Ci furono tolti gli abiti, ci furono tolte le scarpe, ci furono tolti i capelli, ci furono tolti i peli, con dei rasoi che non radevano ma raschiavano. Poi ci venne passato sul corpo nudo, da un prigioniero che immergeva una mano in un secchio dove c’era un liquido nerastro, ce lo passava su tutte le parti del corpo. Si dice l’oltraggio al pudore. Ecco, quello è oltraggio al pudore.

Ci venne tolto il nome, e ci fu tatuato sull’avambraccio sinistro un numero, e ci dissero subito che il nostro nome non esisteva più. Il mio numero è A 5506. Un numero molto semplice, ma imparate un po’ a dirlo in tedesco. E poi in quanti modi si può dire? Si può dire cinquemilacinquecentosei, cinquantacinque zero sei, cinque cinquanta sei, e le SS lo dicevano così come gli capitava e bisognava capirlo. Sennò saremmo stati puniti. Pensate che per una cosa del genere, non aver risposto subito alla chiamata, la punizione consisteva in 25 bastonate».

NELL’AUTUNNO di sedici anni fa mi chiamano per fare un viaggio a Auschwitz. La visita vera e propria dura un solo giorno e si va a collocare tra l’incontro in sinagoga del primo e lo shopping del terzo. Insomma mi sembra come quando ci portavano a teatro negli anni del liceo. Qualcuno disturbava lo spettacolo, qualcun altro passava tutto il tempo in bagno. Era solo un’occasione per non andare a scuola. Ho dei dubbi, ma ci vado lo stesso. Parto con l’intenzione di fare delle interviste agli studenti, capire quali motivazioni hanno e cosa gli succede arrivando in quel posto. Mi rendo conto subito che rispetto alle gite in teatro sta accadendo qualcosa di diverso. In quel giorno non ci troviamo davanti a una scenografia con l’attore del prologo shakespeariano che avanza declamando «immaginate che racchiusi nella cinta di queste nostre mura si trovino due regni assai potenti…». No. Non dobbiamo immaginare di trovarci dove siamo.

Ci stiamo e basta. Ma soprattutto con noi non ci sono gli attori in calzamaglia che interpretano i personaggi, gli Amleto col teschio in mano che impostano la voce e fanno le facce strane. Con noi è venuto Piero Terracina. È lui che parla del numero sul braccio. Aveva poco più di 15 anni quando il 22 maggio del ‘44 arrivò sulla Bahnrampe. In quello stesso posto dopo 61 anni ci stanno 200 studenti delle scuole superiori che lo ascoltano seduti sui binari e sulle traversine. Gli studenti che c’hanno la stessa età che c’aveva Piero quando è stato deportato. Arrestato a aprile, per quasi un mese rimane nel campo di Fossoli. A metà maggio viene caricato nel vagone di un treno merci. Lì dentro sono in 64 e ci resta per quattro giorni «in mezzo agli escrementi di tutti. Difficile esprimere in quali condizioni eravamo in quel momento. Era cominciato, ormai anzi era già in fase avanzata l’annullamento totale dell’essere umano».

PIERO HA CONTINUATO a viaggiare con gli studenti e a raccontare la sua storia fino a due anni fa quando è morto.  Oggi, sedici anni dopo quel viaggio, lo riascolto. La disoccupazione imposta dal ministero mi dà il tempo di ripescare la sua voce registrata dal mio archivio disordinato. La ascolto durante un viaggio. Passo da un treno all’altro per tornare a casa. Cambio a Monfalcone e a Bologna. Scendo dal regionale per salire sull’Intercity e poi finalmente monto sul treno veloce. Otto ore di viaggio. Tra un arrivo e una ripartenza faccio in tempo a prendere il caffè.

LUNEDÌ POMERIGGIO a Fiumicello, cittadina a pochi passi dal confine, nella chiesa di San Valentino, ho ascoltato Paola Deffendi parlare di suo figlio Giulio sequestrato il 25 gennaio del 2016 mentre stava svolgendo un lavoro di ricerca in Egitto. L’ho sentita parlare delle grandi navi da guerra che la nostra industria bellica nazionale sta vendendo ai padroni di quella nazione. La norma sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento vieta lo smercio di armi «verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani». Non si tratta di un buon proposito, di una speranza buonista. È proprio la legge. «Queste navi che sono navi da guerra, navi di ferro – dice Paola – e pensare al ferro fa male.

E io non posso non far riferimento al pensare a Giulio in quelle stanze della National Security, del Ministero dell’Interno egiziano o chissà dove e non pensare al male che ha avuto, all’umiliazione che ha avuto, alla paura che avrà avuto e ai pensieri che avrà avuto. Se prima pensavo all’Egitto come alla terra dei faraoni, alla terra delle piramidi, alla terra della sabbia, alla terra dei cammelli, quando penso all’Egitto adesso non posso non pensare ai quadri di Bosch e all’inferno. Per chi lo conosce sa che ci sono corpi, corpi rovinati, corpi violati. Questo è l’Egitto. Per cui non possiamo non pensare di richiamare l’ambasciatore, non è accettabile che si facciano affari con questo paese».

SUL TRENO CHE mi riporta a casa, mi tornano in mente continuamente le parole di Piero e di Paola, ma anche quelle di Primo Levi che scriveva «è avvenuto, quindi può accadere di nuovo». È una frase che troviamo su tanti libri. Un’ossessione, ma anche un avvertimento. Perché dovremmo celebrare la giornata della memoria se lo facciamo guardando solo al passato, solo a ciò che è accaduto e non a ciò che sta accadendo? Nessuno tra quei milioni di morti tornerà in vita per una corona di fiori, un minuto di silenzio o la lettura teatrale di una pagina del diario di Anne Frank.

L’oltraggio al pudore, le bastonate, l’annullamento totale dell’essere umano del quale parlava Piero sono violenze che Giulio ha subito. E come lui le stanno subendo tanti altri Giulio e Giulia reclusi nelle galere di mezzo mondo. La memoria è come un mazzo di chiavi. Le ho messe in tasca due giorni fa per poterci rientrare a casa stasera. La memoria del passato mi serve nel presente e nel futuro. Mi serve per rientrare a casa, possibilmente vivo.