In maniera folgorante Franca Valeri irrompe con «Il segno di Venere» nel ’55 a suggerire lo schema già in atto nella società e che si dimostrerà valido anche nei decenni a venire: i canoni della misoginia del nostro cinema. Coautrice di soggetto e sceneggiatura indica collocazione e destino delle donne destinate allo zitellaggio perché di lingua tagliente, incline all’indipendenza, ma soprattutto di forme non generose e quelle che si preservano per il matrimonio restando a casa a custodire la quarta abbondante. Franca Valeri e Sophia Loren in cartellone a semplificare il concetto.
Proprio come nel passaggio di testimone dello star system hollywoodiano, si sottolinea la tipologia dei personaggi con un perfido parallelo tra Tina Pica e Valeri, la nipote Cesira: un tipo di donna battagliera e dal deciso tono di comando, incline alle professioni mascoline di esploratrice, casellante, sceriffa, e quindi illibata («sei mai stata baciata?» «MAI!»), oltre che a far convergere la comicità femminile con la scarsa avvenenza, un cliché che durerà fino a pochissimi anni fa, porta solo socchiusa da Monica Vitti vent’anni dopo.

CESIRA invece propone un’etica del lavoro tutta nordica, mentre la famiglia di estrazione popolare (come il pubblico che frequentava all’epoca le sale) detta le regole: il posto di una donna è la cucina, il giornale è qualcosa che voi donne non dovete toccare tanto non ci capite niente, il lavoro? non voglio sentire questa parola in casa mia.
Ecco che tutti i luoghi comuni della nostra società sono messi in bella mostra, come decalogo per il femminismo a venire, e come il Segno di Venere sia diventato film feticcio delle militanti cinéphiles e Franca Valeri una musa.
E proprio nell’affermazione lavorativa il personaggio di Franca Valeri prenderà la sua grande rivincita come Elvira Almiraghi con Il Vedovo (’59) inarrivabile donna d’affari con un marito incapace: in quest’altra regia di Dino Risi, bel match con SordI, non c’è una sua collaborazione accreditata alla sceneggiatura, ma basta la sua presenza a renderla iconica (e un’amante del marito bionda, primitiva e procace è sempre lì a indicare la triade familiare italiana a monito delle donne che pretendono di comandare).

MA LEI non è solo diventata famosa per aver dato vita a una quantità di personaggi femminili del boom economico e delle periferie (da Piccola posta del ’59 a Ultimo tango a Zagarolo)), la sua presenza nel cinema italiano porta un inedito contenuto di cosmopolitismo e di critica sociale a largo raggio che ha a che fare non solo con il teatro dei Gobbi a Parigi e il sodalizio con Caprioli, Bonucci e poi Salce, o la sofisticata novità dell’ambiente intellettuale milanese, ma proveniva già da un suo bagaglio culturale e familiare e spiegherà anche il suo vastissimo impegno nelle arti non solo cinematografiche. Sono emblematici i film firmati dal marito Vittorio Caprioli Leoni al sole (’61) dove fa «a’ milanesa» a Positano e, con suo soggetto e sceneggiatura Parigi o cara (’62) dove ancora una volta mette in evidenza uno dei due possibili personaggi femminili del nostro cinema, la prostituta semplice, di buon cuore e scarse prospettive, prototipo che continuerà a soddisfare il voyerismo del pubblico maschile: la differenza è che qui a risaltare è piuttosto lo sguardo generale, sottile, su una società rurale in via di trasformazione.

E IN UN ALTRO film firmato da Caprioli, Scusi facciamo l’amore? (’67) compare solo in una piccola parte conclusiva, la governante a siglare il significato mercenario del matrimonio («fate quello che volete, ma i principi bisogna rispettarli: i soldi chiamano i soldi»), film affacciato sul ’68, una panoramica della Milano bene così come era proposta anche dalla moda, dai rotocalchi e dalla cronaca, oltre che una rilettura agra dei classici del cinema, Visconti in testa.