«Sono in difficoltà. Mi serve una mano». Dicono che nel vertice di palazzo Chigi, primo compleanno del patto del Nazareno, Renzi abbia messo da parte ogni diplomazia, evitato ogni giro di parole. Serve una mano Silvio, sennò la legge elettorale rischia e se cade anche solo una sua parte il resto viene giù come in un domino. E lo sbocco sono le elezioni. Subito. Col Consultellum. La «mano» che serve è la disponibilità azzurra a votare l’emendamento Esposito, una forzatura che umilia la democrazia e trasforma in barzelletta ogni ciancia sul ruolo centrale del Parlamento. L’«aiutino» che Renzi invoca, di sfuggita, sbatte frontalmente anche con gli emendamenti di Fi, che dovrebbe rinunciare a ogni sua proposta di modifica pur di spianare la strada al premier.

La richiesta sarebbe un’enormità fuori dal mondo se la politica italiana seguisse ancora una logica. Invece nell’Italietta di Matteo e Silvio non solo è lecita, ma viene anche graziosamente accolta. Berlusconi accetta. Offre a Renzi il necessario supporto, in cambio di cosa resta misterioso. Nella seguente e tumultuosa assemblea dei senatori azzurri, il presidente Romani fa capire che qualche prezzo è stato pagato al soccorritore azzurro. In quell’assemblea il gran capo non c’è. L’ha disertata all’ultimo momento, per evitare la tempesta, la raffica sin troppo prevedibile di critiche. «E’ un suicidio» sbotta Fitto. «Macché. Ora Forza Italia è decisiva per la sorte del governo», replica Romani. Nemmeno lui però spera di convincere i fittiani, neppure lui si illude di nascondere il cedimento su tutta la linea. I ribelli, forti di 18 voti, restano decisi a negare l’appoggio, votando sia contro l’emendamento Esposito che a favore di quello Gotor sulle preferenze. Così la situazione dei due soci è identica: entrambi con i rispettivi partiti spaccati, entrambi pronti a ogni forzatura, a ogni lacerazione interna pur di difendere il patto del Nazareno. Questione di simmetria.

Già ma qual è il saldo che Renzi ha accettato di pagare in cambio dell’àncora di salvezza lavorata ad Arcore? Ufficialmente non si è parlato di niente. Le bocche di tutti i presenti al vertice, Verdini e Letta per Fi, Guerini per il Pd, rimangono cucite come di rado capita. Ma qualcosa trapela. Il primo compenso resta l’«agibilità politica», che per Silvio conta più di tutto. Poi, anche se Guerini giura che non se ne è parlato, c’è il Colle. I nomi arriveranno nel prossimo incontro tra i diarchi del Nazareno, martedì mattina. Ma il metodo è ormai definito. Berlusconi non avrà solo voce in capitolo. Il suo semaforo verde sarà condizione necessaria per insediare chicchessia sul Colle. Ieri non si è deciso un presidente, ma si è stabilito che dovrà rispondere alle esigenze del Nazareno e a null’altro.

La rosa che Berlusconi metterà in campo diventa così fondamentale. E’ probabile che il prossimo presidente sarà uno di quei petali. Due nomi sembrano già certi, ma quello di Casini serve soprattutto a far contento Alfano. Le sue chances sono però vicine allo zero. Nella situazione di guerra interna ai rispettivi partiti che Renzi e Berlusconi hanno voluto creare, i franchi tiratori fioccherebbero. Tutt’altro discorso per il secondo probabile candidato del centrodestra, Giuliano Amato. Quello, probabilmente, troverebbe plausi anche nella minoranza Pd. Forse non lo voterebbero tutti, ma i fucilatori del voto segreto, tra i dem, scenderebbero di numero.

Amato però non piace proprio a Renzi. Troppo autonomo: tempo pochi mesi e si monta la testa. Molto meglio Sergio Mattarella, altro nome che prenderebbe voti nella minoranza Pd e forse in qualche forza dell’opposizione. Se Silvio lo infila nel mazzetto, per lui è quasi fatta. Sinora Berlusconi era stato contrario, ma senza irrigidirsi troppo. Ora le cose per il giudice costituzionale sono un po’ peggiorate: a non volerlo assolutamente è Alfano. Nulla è ancora detto, ma forse la partita del colle si giocherà fino a martedì più ad Arcore che nei corridoi del Pd.