«Ma chi sei?» chiede Pat Garrett. «Questa è una bella domanda», risponde Alias, timido e taciturno, ma micidiale al lancio del coltello. Già ben prima di indossare i panni di quel ragazzo dal nome così emblematico nel capolavoro di Sam Peckinpah, Pat Garrett e Billy The Kid, Bob Dylan amava il cinema. Il mistero fantasmatico della luce proiettata sullo schermo così vicino all’elusività e all’inafferrabilità del suo personaggio, magnificamente catturata nel film che gli ha dedicato Todd Haynes, I Am Not There (2007), e che Martin Scorsese ha cercato invano di intrappolare nel suo documentario fiume su Dylan, No Direction Home (2005).

Dal leggendario Don’t Look Back, girato da D. A. Pennebaker, nel 1965, durante il tour inglese di un Dylan, che, davanti ai nostri occhi, cambia personalità come cappelli, in un fantastico rimpiattino con l’idea stessa di cinema-verità incarnata dal grande documentarista americano; al personaggio vagamente mefistofelico nello spot per la Angel Collection di Victoria Secret, nel 2004, Dylan è fluttuato spesso sullo schermo, e ha usato il cinema per esplorare alcune delle sue ossessioni più profonde. Masked and Anonymous mascherato e anonimo, non a caso, è il titolo dell’ultimo lungometraggio che ha scritto (la regia è di Larry Charles), nel 2003, e in cui – sotto le spoglie della rock star Jack Fate – ci guida in un paesaggio di Frontiera post-apocalittica, devastato dal consumismo e sotto il controllo di un governo totalitario. Sgangheratissima ballata che mixa controcultura, Bunuel (uno dei suoi registi preferiti, insieme a Kurosawa) e una qualità deadpan tra il metacinema dei fratelli Coen e la purezza di Buster Keaton, il film è accompagnato dalla presenza di Jeff Bridges, Bruce Dern, Ed Harris, John Goodman, Penelope Cruz, Jessica Lange, Val Kilmer…, docilmente assoggettati all’inspiegabilità del tutto – come i seguaci di un culto.

Ricordo come un momento completamente surreale e altrettanto magico, quando autore, regista e cast sono apparsi in massa sul palcoscenico dell’Eccles Theater al Sundance Film Festival, dove il film ha avuto la sua prima mondiale di fronte a un pubblico esterrefatto.

Come Neil Young, d’altra parte, quando è dietro alla macchina da presa, Bob Dylan parla il linguaggio del cinema sperimentale; in continua dialettica con sé stesso, già da Eat the Document (1972), un film girato da Pennebaker ma che Dylan trovò troppo tradizionale e rimontò personalmente (in una versione di 60 minuti, che include un duetto al piano con Johnny Cash e una gita in limousine con John Lennon) e, più compiutamente, con Renaldo e Clara, un’avventura cubista, scritta e diretta a Dylan. E in cui si specchiano tra di loro identità / personaggi (Dylan e il suo alias, interpretato da Ronnie Hawkins, sua moglie Sara, Joan Baez, Allen Ginsberg davanti alla tomba di Kerouac, Sam Shepard, Rubin «Hurricane» Carter..) realtà e fiction, realizzata nel 1975 prima e durante il tour Rolling Thunder Review.

In una lunga intervista con la rivista Rolling Stones, Dylan lo aveva definito così: «Un film sull’alienazione dell’interiorità umana in rapporto alla sua esteriorità – un’alienazione portata all’estremo. E sull’integrità».