Bob Dylan è il più originale artista che abbia calcato le scene nell’ultimo mezzo secolo. Bob Dylan è un plagiario, il più spudorato ladro che sia mai entrato in una sala d’incisione. Le due affermazioni contraddittorie sono entrambe vere. In Dylan la creatività è sempre intrecciata con il rimaneggiamento, l’eco e la suggestione, il ripercorrere, modificandoli, sentieri già battuti. La sua arte vive nel flusso della cultura popolare e spesso anche di quella «alta», al punto che la sua stessa opera diventa parte di quel flusso, dunque soggetta di continuo a revisioni, slittamenti di senso, reinterpretazioni radicali. Se in ogni concerto Dylan cambia le sue stesse canzoni fino a renderle spesso irriconoscibili è perché lavora sulle sue canzoni come è abituato a fare con l’intera cultura musicale e poetica degli ultimi secoli.

Questo modo di lavorare e creare, unico e originalissimo nella sua pur frequente mancanza di originalità, viene dissezionato, illustrato e interpretato da Alessandro Portelli nel suo Bob Dylan, pioggia e veleno (Donzelli, pp. 178, euro 18).

È UN SAGGIO, breve ma molto più che denso, dedicato a una sola canzone, A Hard Rain’s A-Gonna Fall, del 1962, il capolavoro che chiude il secondo lp di Dylan, il primo però non occupato quasi esclusivamente a covers. È la canzone che Patti Smith ha cantato quando è andata a ritirare il Nobel al posto del cantautore premiato, secondo molti la migliore mai scritta da Dylan. Hard Rain è molto significativa anche per un altro motivo indicato da Portelli: è il pezzo con cui il cantante abbandona la maschera dell’oakie sulla strada sin da quando portava i pantaloni corti, quella con cui era arrivato a New York e ai primi successi.
Si potrebbe aggiungere che è anche la prima canzone compiutamente apocalittica: l’inizio di un lungo percorso che arriva sino al suo ultimo disco non di covers, Tempest, dove l’affondamento del Titanic è adoperato di nuovo come metafora apocalittica.
Dylan, segnala Portelli, è immerso in questo flusso che lo studioso italiano, citando Giovanna Marini, definisce «una placenta».
Però, aggiunge, non si limita a essere un ulteriore anello nella catena: è l’anello che congiunge percorsi e ispirazioni e suggestioni diverse.

PORTELLI usa tutta la sua mostruosa erudizione per tracciare la genealogia di Hard Rain e mettere poi il capolavoro di Dylan a confronto con gli altri fiori sbocciati dalla radice originale, una canzone scozzese popolare del primo XVIII secolo conosciuta come Lord Randal, diffusa poi in versioni lievemente diverse un po’ ovunque ma particolarmente proprio in Italia, col nome Il testamento dell’avvelenato, un brano folk noto a Portelli nelle sue diverse varianti regionali. Come il blue-eyes son di Hard Rain, Lord Randal viene interrogato dalla madre quando torna sofferente da un giro nel bosco. La struttura del pezzo è identica a quella notissima del brano di Dylan. Randal risponde alle domande, si scopre così che è stato avvelenato dalla fidanzata. La madre gli chiede, prima di morire, di fare testamento. L’ultimo lascito è per la fidanzata assassina: una corda e un cappio per impiccarla.

La casa, prosegue Portelli, è la sicurezza, la consuetudine, il bosco è il nuovo, lo sconosciuto, il pericoloso. Anche il blue-eyed son si addentra in un «bosco», il mondo devastato da un’apocalisse che nel ’62 fu arbitrariamente identificata con la pioggia radioattiva. Ma sarebbe un errore vedere nel bosco solo la minaccia: è lì che va ricercata anche la trasformazione e quindi la speranza.
In effetti, a conferma delle parole dello studioso italiano, nella versione dal vivo della canzone contenuta nel vol. 7 delle Bootleg Series Dylan la introduce spiegando concisamente: «Hard Rain significa che qualcosa sta per succedere».

Portelli non si addentra nella visionarietà profetica del cantante-poeta. A differenza di Lord Randal, il blue-eyed son sceglie di lasciare di nuovo il riparo della casa per «dire e annunciare e pensare e respirare e riflettere» ciò che ora sa. Oppure, se come è probabile quanto descritto fino alla penultima strofa è una visione profetica, sceglie di uscire pur sapendo cosa dovrà affrontare prima di sprofondare nelle acque dell’oceano.

IN FONDO, quando il protagonista racconta alla madre dove è stato, cosa ha visto e sentito, chi ha incontrato, la «dura pioggia» deve ancora cadere.
Forse quel che racconta deve ancora avvenire: il protagonista lo ha sognato come lo «Watchman» di Tempest sogna l’affondamento del Titanic. O forse la dura pioggia deve lavare e rimodellare, sommergendola, la desolazione del mondo esplorata dal blue-eyed son. Comunque arriverà a cambiare le cose, secondo quel modello di rischio/opportunità insito in ogni sovvertimento epocale che Portelli indica infine come senso più profondo del capolavoro giovanile di Robert Zimmerman.