Sebbene la bella copertina con un uomo anziano di spalle sembrerebbe suggerire un romanzo sulla vecchiaia, e a dispetto del risvolto in cui si legge «un’elegia dolceamara a Dublino e una riflessione unica sulla vita di uno dei suoi abitanti», Farley – il romanzo dell’irlandese Christine Dwyer Hickey, appena uscito per paginauno nell’ottima traduzione di Sabrina Campolongo (pp. 243, 18 euro) – è prima di tutto una meditazione sull’esistenza del protagonista, a partire dalla sua fine. Anche una vita qualunque, se ripercorsa alla luce della sua conclusione, può acquistare una dimensione quasi epica, a conferma del famoso assunto di Walter Benjamin secondo cui «la morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può narrare». E proprio come «il narratore» di Benjamin, Christine Dwyer Hickey «attinge dalla morte la propria autorità», partendo dagli ultimi istanti del suo settantacinquenne protagonista, per risalire di dieci anni in dieci anni fino al 1940, quando egli si ricongiunge al sé bambino, attraverso il recupero dei momenti chiave di tutta una vita. Il progetto narrativo è ambizioso, essendo il tour de force imperniato su una cronologia capovolta, passibile di dare luogo in mani meno abili a effetti frastornanti. Al contrario, Dwyer Hickey riesce a manovrare la sua struttura narrativa come un congegno perfetto, per avvicinarsi alla soluzione del mistero dell’umana esistenza, di quell’enigma che sostanzia e rende unico ogni individuo, fosse pure il più banale.

Di capitolo in capitolo, ovvero di decade in decade, attraverso un sapiente uso del discorso indiretto libero e del monologo interiore adattati via via alle varie età del protagonista, si chiariscono motivi, situazioni, atteggiamenti e persino immagini ricorrenti e sogni. Il passato remoto getta luce sul passato prossimo, mentre a chi legge è richiesto di partecipare attivamente al ritrovamento e alla giustificazione dei tanti indizi che contribuiscono a creare l’unicità della storia di Charlie Grainger, detto Farley per l’assonanza del suo nome con quello di un avvenente attore degli anni Quaranta e Cinquanta, Farley Granger (il bel tenente che fa perdere la testa ad Alida Valli in Senso di Visconti). La scelta del soprannome non è casuale (ed è quindi apprezzabile la decisione editoriale di cambiare il titolo originale, The Cold Eye of Heaven, che sembra rimandare, in maniera del tutto incongrua, alle atmosfere dei western classici di John Ford). Come l’attore hollywoodiano, oggi pressoché dimenticato, anche il protagonista del romanzo finisce la sua vita in assoluta solitudine, mentre le poche persone con cui ha ancora qualche contatto ignorano il perché di quel soprannome. Del resto, il Farley che compare, nel primo capitolo del romanzo, in bagno «un lato della faccia schiacciato contro il linoleum, la spalla destra incastrata contro il termosifone … il naso a pochi centimetri dalla tazza del gabinetto», vittima di un grave infarto, è ben diverso dall’uomo che il lettore impara a conoscere, e con il quale stabilisce una forte empatia. L’anziano Farley è un individuo disilluso, che rifugge il contatto con gli altri, e la cui monotona esistenza è scandita da metodici appuntamenti settimanali. Per lui, come si legge nel secondo capitolo, ambientato il giorno precedente l’attacco cardiaco, andare nel centro cittadino per mettere a punto il proprio abbigliamento in vista di un funerale (al quale non è atteso) costituisce un cimento di titaniche proporzioni. Lo attanaglia la paura, «di essere scoperti a parlare da soli, di pisciarsi nei pantaloni, di dover fingere di ricordare un nome, un luogo, una faccia che conoscevi così bene». E intanto, continue avvisaglie dell’infarto lo trafiggono segnalandosi come uno spiedo che affonda nella testa, seguito da un’esplosione di punture di spillo sul braccio, un susseguirsi di sensazioni fisiche ed emotive rese attraverso frasi sincopate, che riproducono le aritmie del cuore.

Di capitolo in capitolo si risale al Farley ancora vigoroso che si appresta a celebrare la propria festa di pensionamento; al figlio adulto che accudisce una madre affetta da demenza senile; al giovane marito destinato a prematura vedovanza, fino ad arrivare al bambino che, in ospedale, attende invano una visita della madre. Non ci sono grandi eventi nella parabola esistenziale di Farley, solo gioie e amarezze di una vita comune: ogni capitolo porta il lettore in medias res, lasciandogli il compito di riannodare le fila del discorso che procede a ritroso, individuando connessioni con quanto già si conosce e concentrandosi via via sui momenti epifanici di ogni stagione. Così, tutti i capitoli, nel loro insieme, sembrano rimandare ai Dubliners di Joyce, non solo perché ne è protagonista, insieme alla «gente di Dublino», la stessa città, rappresentata con joyciana attenzione al dettaglio, ma soprattutto perché, come nei racconti joyciani, paralisi e fuga ne costituiscono i temi dominanti. La paralisi di Farley, devitalizzato dalla morte della moglie, poi dal tradimento del suo miglior amico, e il suo desiderio di fuga, coltivato fin dall’adolescenza, che come nei personaggi dei Dubliners, non approda ad alcuna realizzazione.

Non è solo l’ombra di Joyce a gravare sul romanzo: Dwyer Hickey dimostra di aver bene appreso anche la lezione dei migliori tra i contemporanei irlandesi: nella parlata schietta di Farley e dei suoi amici c’è un’eco di Roddy Doyle, mentre l’aggirarsi nella Dublino gelida e ostile il giorno prima della morte rimanda al vagare senza meta dell’anziana Molly Allgood nella plumbea Londra invernale di Una canzone che ti strappa il cuore di Joseph O’ Connor. Del tutto originale, tuttavia, è l’abilità dell’autrice nel partire da immagini che si imprimono nella memoria visiva attraverso parole che «si srotolano insieme, esplodono in ondate, tornano ad avvolgersi», come in una poesia del fratello, di cui il giovane Farley ascolta incantato la lettura.