Sicuramente entrerà nel Guinness dei primati per il numero dei coproduttori (i migliori teatri d’Europa e ben quattro italiani, tre nazionali e un «tric») contagiati da La maladie de la mort (a Roma solo due repliche all’Argentina) firmato da una regista notissima e contesa. Katie Micthell, dopo infinite e applaudite regie di teatro e d’opera , da Londra a Salisburgo e perfino a Broadway, arriva da noi con una sua «multivisione» di quel romanzo breve di Marguerite Duras, pubblicato nel 1980. La vicenda è quella di una doppia prospettiva, maschile e femminile, nella ricerca del piacere.

UN UOMO maturo che paga una giovane donna per effettuare con lei la verifica del desiderio erotico e conoscitivo che si porta dentro. Le parole esprimono in maniera molto schematica quello che è il percorso dell’incontro. Lui paga lei per averla a completa diposizione, in una camera d’hotel, per giorni e giorni. Un contratto «chiaro» e ben pagato nel suo «mistero», che si svolge davanti ai nostri occhi, con e senza i loro abiti, in camera da letto e in bagno, con brevissimi flash sulle uscite di lei. Lei è scettica e non pare capire molto quello che lui vuole; lui invece si macera e si interroga sulla possibilità stessa dell’innamorarsi , sul poter raggiungere una vera intimità. Una variazione affascinante del rapporto uomo/donna che torna ripetutamente nella scrittura di Duras, ma che Katie Mitchell amplifica e moltiplica con lo strumento (ultimamente usato anche da diversi altri registi) di trasformare il racconto anche in un film, davanti agli spettatori in platea, sdoppiando il racconto e fornendo altri punti di osservazione sui personaggi e sul loro rovello, erotico e comportamentale.

ESSENDO la vicenda così apparentemente «spoglia» (e spogliata, ovviamente) manca l’emozione e la curiosità, per fare un esempio, che la brasiliana Christiane Jatahy comunicava con Cechov (visto pochi mesi fa a Udine) o con Ibsen. Il cinema (un grande schermo al di sopra della scena) a momenti appare superfluo se non artificioso, dato che sotto avvengono dal vivo le riprese, che finiscono per risultare superflue o almeno artefatte (a tratti addirittura «noiose»). Ma al di là delle discussioni astratte, bisogna riconoscere a Kate Mitchell la capacità di insinuare almeno un dubbio, un leggero malessere nello spettatore, amplificando con le immagini la perfidia narrativa di Duras sull’impossibile felicità del conoscersi, anche nei modi più intimi.