Di un copertone abbandonato ha fatto, dieci anni fa, un inedito serial killer on the road. Nel penultimo film, una giacca di daino («100 per cento», sottolinea beffardo il regista) è all’origine di altri delirii omicidi. Rubber (cioè gomma, caucciù), costato 500 dollari nel 2010, ha ridotto a una sola ruota, per di più senza cerchione, il ‘treno’ assassino di una lunga tradizione di persecuzioni d’incubo stradale, da Duel di Spielberg a Unhinged («Il giorno sbagliato»), in anteprima al Bif&st domenica scorsa con Russell Crowe implacabile minaccia in Land Rover. E The Daim, che sarebbe dovuto uscire in Italia in primavera, ha reso totalmente gratuita, con costo appena triplicato (inclusi i cachet delle due star Jean Dujardin e Adèle Haenel), qualsiasi psicomotivazione di altre letalità seriali.

Invitato ora, fuori concorso, alla Mostra di Venezia con l’ennesimo nonsense cinematografico, Mandibules, film di giornata, appena scodellato, il regista francese Quentin Dupieux, 46 anni annidati in un cespuglione di barba nerissimo – un nero da fiaba, orgoglioso e imperativo, come ci è apparso all’incontro a Parigi ai Rendez-vous di Unifrance –, si prepara a diventare star anomala anche per il pubblico italiano, a ormai vent’anni dai suoi esordi in Francia. Figlio d’un garagista (è forse lì l’origine del suo copertone assassino?), Dupieux ha per padre cinematografico Michel Gondry, altro astro del fantacinema d’oltralpe, alla cui factory cresce e si forma, partecipando, regista imberbe, alle riprese delle clips Midi-Minuit. Debordante, fisicamente e creativamente, Dupieux, che in vent’anni ha girato nove lungometraggi e cinque corti – primo titolo dei lunghi, Nonfilm, primo titolo dei corti Nonfilm 2 – allarga da subito i suoi estri alla musica elettronica, di cui è autore e esecutore e dj sotto lo pseudonimo di Mr. Oizo, dopo l’incontro con Laurent Garnier.

Musica e immagine firmate Dupieux, al servizio della story più inattesa, di durata come sempre sobria (77 minuti), sono ancora una volta gemelle nel nuovo film, di cui è sceneggiatore e regista, sotto la direzione artistica di Joan Le Born, con la quale vive da tempo e da cui ha avuto vari figli, «Mandibules»: dal caucciù al daino, agli insetti?
È una commedia, una storia semplice: quella di due giovani che trovano nel cofano dell’auto una mosca gigante e cominciano a ammaestrarla. Gli interpreti? Adèle Exarchopoulos, Grégoire Ludig, Bruno Lochet, Coralie Russier… Anche la Mosca ha un interprete: Dave Chapman.

A che deve, Dupieux, un tale caleidoscopio di idee e di storie?
Mi attengo a un unico principio: mai girare un film come dovrebbe essere girato. Mi preoccupo sempre di occultare le regole. Mai una documentazione, anche la più pallida. Mai imparato a buttar giù una sceneggiatura. Vedo che gli altri registi corrono tutti dietro i grandi classici, del cinema o della letteratura. Ma non possono competere e se ne tornano scornati e frustrati.

Lei non ha modelli?
Non sono e non sono mai stato un cinefilo: che, per un cineasta, è già una qualità.

Cineasta senza qualità?
Mi interessa solo la ricerca e la resa della bellezza: è questo il mio primo obiettivo, non la ricerca di originalità. È fuori strada chi si ostina a vedere nei miei film una volontà a tutti i costi di originalità.

Esempio?
The Daim. È in due atti. Manca il terzo. Tutti si chiedono perché. Il cervello umano è abituato a attendersi sempre un terzo atto. Ma qui non c’è. Mi andava bene così.

Come ha iniziato nel cinema?
Forse non ho mai iniziato. Ho imparato da solo, nella mia infanzia. Ne risulta che nei film che realizzo non c’è quel senso di super-elaborato che s’avverte nel cinema in generale. In Mandibules vi sfido a trovare qualcosa di super-elaborato.

Qual è allora la qualità del suo cinema ? Il suo ‘bello’?

Proprio l’infanzia. Negli anni non sono divenuto un professionista. Nelle immagini dei miei film non troverete cinismo, che caratterizza invece ogni singola immagine del cinema professionale. Le mie immagini sono elementari, al primo grado: non sono rilavorate. Ho sempre dato totale fiducia all’istinto piuttosto che all’esperienza. Mandibules e gli altri miei film sono la continuità della mia infanzia: non sono una protesi artificiale del mio mondo e del mio candore infantili.

Per questa infanzia in diretta cinematografica le è facile trovare complicità nei suoi interpreti?
Il procedimento è semplice e facilmente condivisibile. Si tratta di evitare il mondo corrente o di rifarlo a misura della storia raccontata. Sul set di The Daim, con Jean Dujardin, attore più che esperto e sofisticato, da The Artist a J’accuse, ci siamo confrontati molto spesso sull’infanzia, sulla sua vocazione a creare storie, a inventare mondi inesistenti.

Il mondo contemporaneo non rimane però fuori della porta, nemmeno nei suoi film apparentemente più astratti, come «Rubber», o in quelli più iperbolici, come «The Daim».
Infatti The Daim è il più oscuro dei miei film. È la riduzione dell’uomo a un’unica ossessione: la fissazione per la pelle di daino, la blusa, le frange, i guanti. Siamo al bisogno di una soddisfazione animale: come potrebbe essere, per un cane, l’elementare ossessione del mangiare. O come, in Rubber, il telepatico pneumatico serial killer, di nome Robert, animato, lui oggetto inanimato, nell’inanimato deserto californiano, dal fascino calamitante di una bellissima ragazza (l’attrice Roxane Mesquida), cui si mette a dar la caccia di motel in motel seminando, sul suo cammino, la morte di animali e umani.

Il suo cinema, che ha conosciuto escursioni statunitensi, sta ora ‘americanizzando’ le location francesi?
Questioni produttive. Per esempio, The Daim era in origine un progetto Usa. Poi mi sono accorto che vallate deserte o California dorata potevano trovare i loro sosia cinematografici nei nostri Pirenei o nella Cosa Azzurra. In fin dei conti, agli inizi ho girato in Usa soprattutto per purificarmi dal cinema francese. Con Mandibules sono al mio quarto film francese in tre anni.

Fin dall’inizio ha messo la sua musica nei suoi film : ma l’attività musicale ha preso spesso il sopravvento, emergendo in modo autonomo, come nel 2013, con il duo con Marilyn Manson. Anche la musica segue le stesse non-regole del suo cinema?
È vero che sono conosciuto dal grande pubblico soprattutto per il mio hit del 1999, Flat Beat, tre milioni venduti e numero 1 in numerosi Paesi (Gran Bretagna, Germania…), con persino una nomination ai Brit Awards accanto a Jamiroquai, Chemical Brothers e Fatboy Slim. Forse il successo della clip era anche dovuto alla marionetta gialla, Flat Eric, protagonista della scena. Quanto alle ‘non-regole’, le mie composizioni sono basate sull’inascoltabile: le articolo attorno al principio di ‘una cosa vale l’altra’, ricorrendo con la massima casualità all’applicazione di musica elettronica Ableton Live, cercando campioni aleatori nella sua banca suoni. Tutto costruito con questo trucchetto: allinearsi alla contemporaneità ma senza obbligatoriamente cercarvi del senso. Per me, non c’è niente di più bello nell’arte dell’assoluta mancanza di riflessione.

Qual è il segreto della velocità-record con cui sforna musiche e film? «Mandibules», l’ha cominciato in primavera e è già in programma a Venezia.
Mi limito a assistere al parto d’una mia opera, come adesso alla Mostra. Ma, poi, la lascio andare, e mi metto al lavoro sulla prossima. Una volta finito, un film, come una musica, non mi appartiene più: diventa di tutti.