Racconta Tim Burton che la proposta di realizzare una nuova versione live action di Dumbo, il capolavoro di animazione Disney del 1941 gli è arrivata dallo studio nel 2015, il regista di Ed Wood e di Edward mani di forbice aveva affrontato il remake di un altro magnifico classico dell’animazione disneyana quale Alice nel paese delle meraviglie (2010) e non pensava di farne degli altri. «Ma Dumbo era un’eccezione, amo moltissimo quel film perché è diverso da tutti gli altri e il suo protagonista è una creatura speciale. Inoltre nella sceneggiatura c’era qualcosa che mi faceva pensare al mio rapporto con la Disney, che per me è una grande famiglia disfunzionale visto che mi hanno già licenziato tre volte, la prima negli anni Ottanta, quando gli avevo proposto di disegnare delle attrazioni per Disneyland».

E SE L’AMORE per il «diverso» appartiene alla poetica di Burton – peraltro era già caratteristica della versione animata – e attraversa il suo cinema popolato da personaggi strampalati, marginali, malvisti dalla società, genialmente «fuori norma» tra cui l’elefantino con le orecchie troppo grandi trova armonicamente il suo posto, questo Dumbo (in sala domani, stasera Tim Burton riceverà invece il David di Donatello alla carriera) del nuovo millennio, scritto da Ehren Kruger, prende anche direzioni, inattese e distanti da quelle dell’ «originale».

Burton sposta lo sguardo nell’occhio dell’animale che non parla, non sogna elefanti rosa ma dilata nella pupilla inquietudini e domande su quel mondo umano cattivo e ghignante. Nell’occhio di Dumbo come in quella della sua mamma il tendone del circo è un’arena, il pubblico sembra incapace di sognare, lo spettacolo è una macchina esigente che ti divora anche quando hai successo.

NESSUNO sembra più disposto a farsi incantare dalla sirena, Miss Atlantis, chiusa in solitudine nella sua vasca,o dall’uomo forzuto,Rongo, e Max Medici (Danny De Vito) il direttore del circo Medici ha la melanconia di chi sa che una stagione è arrivata alla fine. Quell’elefante sbagliato è solo l’ennesima noia, un problema in più da risolvere cercando di monetizzare la sua goffaggine.
Dumbo ha gli occhi celesti, è meno aggraziato del cartoon teneramente sorridente, la testona oscilla impacciata e quelle orecchie gli stanno tra davvero tra i piedi. Non ha un topino bianco per amico ma due bambini tristi come lui, la mamma è morta e il padre, cavaliere dello show ha perso un braccio in guerra ma soprattutto sembra incapace di ascoltarli e di prendere una giusta decisione (Colin Farrell, un po’ ingessato).

Millie (Nico Parker) vorrebbe essere scienziata mentre suo fratello Joe (Finley Harris) sogna di esibirsi però gli altri dicono che non ha talento,sono loro a scoprire che Dumbo può alzarsi in volo anche se all’inizio nessuno gli crede. Perché poi come ogni film di Burton anche questo Dumbo (alla proiezione stampa applauditissimo dai bambini) è un romanzo di formazione su quel momento in cui si scopre che il proprio mondo di affetti e di amore è sempre in bilico, che ci possono essere scosse violente e solitudini, che si può perdere tutto ma anche trovare qualcosa di nuovo, che i propri sogni rimangono lì e che si può volare anche senza una piuma …

SARÀ LA SVOLTA per il circo Medici questo prodigio? Ci vuole un attimo perché arrivi il potente di turno, nella persona V.A Vandevere (Michael Keaton) parrucchino biondo stessa tonalità di Trump, è il tycoon di Dreamland, un enorme parco di attrazioni il cui slogan è «rendiamo possibile l’impossibile»… Meraviglie meccaniche sintonizzate col progresso e con lo spirito di modernità del nuovo secolo che ha già perduto l’innocenza nella guerra, ricchezza, una patina scintillante e un lato oscuro in cui svanisce la diversità..

IL CIRCO ne viene inghiottito – un po’ come Fox  dalla Disney, licenziamenti inclusi – e la storia di Dumbo va oltre l’happy ending del successo che chiudeva il film del ’41 (con le magnifiche canzoni come Baby Mine che l’edizione italiana ha doppiato affidandola alla voce di Elisa. Ma un consiglio: cercate l’edizione originale), un’altra era nonostante la guerra, per dirci invece che quel successo ha un prezzo altissimo, quando significa la perdita dell’indipendenza in uno show business in cui l’artista è solo strumento come la bella Colette Marchant, acrobata parigina (Eva Green) che deve volare insieme a Dumbo, da sacrificare per ottenere effetti speciali migliori.

È QUESTO rapporto tra creatività indipendente e industria dello spettacolo quello che Burton mette di sé nella sua versione di Dumbo, e forse qui c’è il senso di quel Dumbo sono io ripetuto dal cineasta. Lo fa in modo semplice, con la dolcezza della sua arte che scopre e i trucchi e gioca con l’immaginario: Dumbo, l’elefante leggero come una piuma è un meraviglioso soffio di scompiglio. Si deve saper cogliere, il trucco è tutto qua.