Il Corriere della Sera di 58 anni fa riteneva il 20-21 febbraio 1963 – uniche date italiane dell’Orchestra di Duke Ellington – l’evento musicale dell’anno. La big band proveniva da Zurigo ed era nel pieno di un tour europeo, partito il 9 gennaio da Londra, che si sarebbe concluso il 2 marzo a Parigi.
Ellington e i suoi musicisti, organizzatore Norman Granz, si sarebbero esibiti alla sala Verdi del Conservatorio di Milano, intitolato al compositore di Busseto. Dalla stampa quotidiana ciò venne interpretato come «una sorta di conquista culturale: la musica classica aveva deciso di aprire le porte al jazz ormai diventato adulto« (Luca Bragalini, Dalla Scala a Harlem, p. 2). In realtà non era come immaginavano i giornalisti e il pubblico che fece alla sala Verdi il «tutto esaurito» per le due serate (4mila posti complessivi). Oggi il conservatorio meneghino si apre con entusiasmo al jazz: l’ultima edizione del festival JazzMI (autunno 2020) prevedeva alla sala Verdi Stefano Bollani, concerto purtroppo annullato causa Covid-19. Nel 1997 la Ecm pubblicò un recital per solo pianoforte di Keith Jarrett (La Scala) registrando proprio nel «tempio operistico» milanese due lunghe improvvisazioni (La Scala, parte 1/parte 2).
Nel 1963 era abituale affittare la sala Verdi senza nessun coinvolgimento diretto dell’istituzione a livello di patrocinio e promozione; nel medesimo anno vi avrebbe suonato, stessa formula, il polistrumentista Roland Kirk. Tanta fu l’eco (stampa e tra i jazz fan) dei due recital ellingtoniani quanto passò sotto silenzio come il bandleader avesse registrato nel pomeriggio del 21 febbraio in uno studio milanese, guidando professori d’orchestra della Scala e alcuni suoi sidemen.
Luca Bragalini (nel libro Dalla Scala ad Harlem di cui si parla qui sotto) ha dimostrato come nell’Archivio della Scala non esista traccia della registrazione. Testimoni orchestrali affermano che un’apposita riunione di una commissione artistica negò a Ellington l’uso del marchio «Teatro alla Scala» per la registrazione a cui il bandleader stava lavorando. L’album, pubblicato nel 1963, era The Symphonic Ellington della Reprise, con quattro composizioni (Night Creature, Harlem, Non Violent-Integration) di cui l’unica inedita era quella registrata, in parte, a Milano: La Scala, She Too Pretty to Be Blue.
Il responsabile dell’Archivio, allora flautista dell’orchestra, Franco Tabarelli ha raccontato a Bragalini che in quel periodo c’era una sorta di veto nei confronti del jazz fin dagli anni di conservatorio quando «era vietato suonare musica leggera e assolutamente il jazz» (p. 7). A fine anni Settanta, in alcune istituzioni, il veto era operativo: Paolo Fresu fu cacciato dal Conservatorio di Sassari per aver partecipato a un concerto di musica non-classica.
Per il pomeriggio di incisione il fagottista Oreste Canfora (fratello di Bruno Canfora) convocò 51 professori della Scala disponibili. Il resto fu ben organizzato da Giuseppe Giannini della Cgd (collegata alla Reprise), titolare del settore internazionale. Arruolò il tecnico del suono Kurt Grieder, commissionò allo studio Giancolombo un servizio fotografico (20 foto, inedite, recuperate grazie a Luca Bragalini), convocò la stampa (Vittorio Franchini, Daniele Ionio) e prenotò (ore 17-20) la sala di registrazione Regson, detto Studio Zanibelli. Operativo dal 1962, ben dotato tecnicamente, quel luogo ha rappresentato un punto di riferimento anche quando ha cambiato nome (Officine Meccaniche) e proprietario (Mauro Pagani): laddove registrò Ellington hanno inciso, fra gli altri, Enrico Rava, Gianluigi Trovesi, Stefano Di Battista, Jim Hall e John McLaughlin.
In questa storia risultano stupefacenti il ritmo di lavoro del bandleader e compositore afroamericano (allora 64enne), la sua capacità di lavorare in simultanea a più progetti, la visione prospettica. Lo spartito de La Scala venne ultimato da Ellington direttamente in albergo a Milano come l’orchestrazione (unica tutta di suo pugno tra le pagine sinfoniche); per la stesura delle parti staccate lo aiutò un vecchio amico, il sassofonista-clarinettista-arrangiatore Piero Rizza, un «maestro» del jazz italiano che conobbe a New York nel 1932. Qualche sezione venne messa a punto allo Studio Zanibelli. L’orchestra dei professori della Scala era integrata da Ray Nance (tromba), Paul Gonsalves (sax tenore), Ernie Shepard (contrabbasso), Sam Woodyard (batteria) e da Duke al piano. Il risultato di quelle tre convulse ore fu, soprattutto, un raffinato background orchestrale, anche perché Ellington avrebbe avuto bisogno di più tempo o di musicisti adusi al suo modo di lavorare. Le perplessità del bandleader sul brano di oltre sei minuti (in forma intro/A/B/C/D/ E/F/B’/A’/coda) sarebbero state sciolte dal suggerimento di Billy Strayhorn di sovraincidere le parti solistiche, come avvenne a New York nei mesi successivi con Gonsalves, Cootie Williams, Lawrence Brown e Russell Procope.
Alle 20 tutti andarono via in fretta e furia, chi a suonare la Madame Butterfly diretta da Gianandrea Gavazzeni, chi a replicare alla sala Verdi il clamoroso successo dell’orchestra ellingtoniana del 20 febbraio: Ellington aveva i suoi nastri incisi, il tour europeo incalzava.
La Scala, She Too Pretty to Be Blue sarà «uno squisito bozzetto di una bellezza tanto intima e ritrosa da non aver mai attirato attenzioni» (p. 26), comunque una tappa fondamentale dell’esplorazione/raffinamento del blues nella poetica di Ellington.

«Dalla Scala a Harlem», un giallo musicologico
Prima si accennava a Dalla Scala a Harlem. I sogni sinfonici di Duke Ellington (Edt, 2018, pp. 296, euro 25 con cd allegato), il libro di Luca Bragalini. Si tratta di un vero e proprio «giallo musicologico» in cui l’autore (musicologo, docente di conservatorio, conferenziere, ricercatore) porta a compimento decenni di studi sull’immenso compositore afroamericano. Bragalini ha, peraltro, scritto un altro apprezzatissimo volume – Storie poco standard (Edt, 2013) – che ha trasformato in format radiofonico e spettacolo teatrale.


Si diceva «giallo musicologico» perché l’autore unisce la vivezza della narrazione all’indagine che passa attraverso materiali musicali, archivi, musicisti testimoni, fotografie e quant’altro necessiti al fine di ricostruire l’itinerario complesso delle opere sinfoniche di Duke Ellington, spesso sottovalutate ma di altissimo valore musicale e culturale. Nell’appassionante e documentatissimo testo Luca Bragalini parla de La Scala, New World A-Comin’, delle composizioni dedicate a Harlem, Night Creature, Three Black Kings e Celebration.
Il tema fondamentale è quello di analizzare le opere sinfoniche ellingtoniane viste, però, in controluce e inserite nel contesto più generale dei rapporti tra jazz, musica «europea», improvvisazione, composizione. Il duraturo disegno di Ellington è quello di andare al di là delle forme aperte e «brevi» tipiche di molto jazz, in direzione di strutture più ampie e con l’utilizzo di organici sinfonici. Nella sua autobiografia (Appendici) il musicista afroamericano cita, con orgoglio, le trentanove orchestre con cui ha suonato in tutto il mondo fin dal 1949, dalla Boston Pops Orchestra alla London Philarmonic (citando l’Orchestra della Scala di Milano).
In modo complementare sviluppa un altro progetto: quello di accreditare il jazz e il blues come musiche rappresentative del popolo afroamericano, contro l’opinione di molti dei leader «storici» quali W.E.B. Du Bois o James Weldon Johnson e almeno una parte del Rinascimento di Harlem, di cui Ellington è stato – a suo modo – un protagonista. Bragalini racconta (documentando) come con le sue opere «in mezzo secolo di lavoro sul pentagramma, Ellington mise a punto la più proteiforme idea di blues di tutta la storia della musica statunitense» (p. 175). Il suo non snaturante disegno di raffinamento del blues «dagli ingredienti del Delta, da cui tutti avevano cavato lo stesso energico ‘torcibudella’, dimostrò come fosse possibile distillare un amabile brandy millesimato. E nel 1963 produsse una delle bottiglie più pregiate della sua cantina: La Scala (p. 183).
Le pagine dedicate ai blues di e in Ellington (inizio V capitolo) sono tra le più sostanziose, stimolanti, documentate e esaustive che si possano leggere nella musicologia afroamericana recente. Chi ha assistito alle lezioni di Bragalini sa quanto efficace e trasversale sia il suo modo di comunicare, rendendo la musica materia viva e pulsante per chi lo ascolti. Così è il libro Dalla Scala a Harlem pur nella profondità e finezza di analisi.