Fervente ortodosso, filologo di formazione, amante della parola, Evgenij Vodolazkin è oggi in Russia uno degli autori più letti e la cui figura, grazie alla sua adesione alla politica di Putin, è più controversa: piace sia a un critico come Dmitrij Bykov, politicamente agli antipodi, sia a Zachar Priliepin, a lui più vicino, che lo considerano entrambi tra i migliori scrittori russi contemporanei. Motivo ricorrente nella prosa di Vodolazkin, il tempo storico è in Lauro (del 2013) il medioevo russo, e nell’Aviatore (del 2019) – che ruota intorno a un caso di amnesia – l’inizio del ‘900: Brisbane, il suo quarto romanzo (traduzione di Leonardo Marcello Pignataro, Brioschi, pp. 396, € 20,00) combina invece due linee temporali. Protagonista, l’affermato e ricco musicista Gleb Janovskij, che nel corso di un concerto, impossibilitato all’esecuzione di un tremolo sulla sua chitarra, scopre gli esordi di un Parkinson.

La vita e la morte, non c’è scrittore che possa evitare questi temi, ha scritto Vladimir Nabokov, e anche questo personaggio lo conferma, mentre le sue vicissitudini incrociano la storia di Unione Sovietica, Russia e Ucraina. Si offre a scriverne la biografia un giornalista il cui pseudonimo è Nestor, nome impegnativo perché già del compilatore della prima annalistica russa, La cronaca degli anni passati. La storia segue così due trame parallele, una al presente, tra Russia, Ucraina e Germania, l’altra inabissata nel passato dell’infanzia trascorsa a Kiev, prima del successo.

Nestor diventa l’estensore della cronaca di cinquant’anni di storia sovietica e russa, e sappiamo dallo stesso autore che dietro questo personaggio Vodolazkin ha nascosto una sorta di autoparodia. Non solo la linea narrativa è doppia, ma due sono anche le lingue in campo (russo e ucraino), le professioni (scrittore, musicista), i paesi della ambientazione e gli eventi cruciali cui partecipa il protagonista. Un tono straniato e empatico allo stesso tempo accompagna la descrizione del crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, mentre nel presente la rivoluzione ucraina di Maidan è raffigurata in una scena molto cruda in cui lo spaventoso militare che, ritenendolo una spia russa, minaccia di uccidere Gleb, si rivela un attore. Anche nella giovane Ganna, che per sedurre Gleb si presenta come militante del movimento femminista ucraino Femen, si scoprirà una impostora.

Le affermazioni di Gleb secondo le quali quello dell’Ucraina e quello della Russia sarebbero un solo popolo, sono state oggetto di veementi polemiche in Russia; ma Vodolazkin mette spesso in campo una sottile ironia, tutto è sdoppiato, e due sono i simbolici strumenti di cui Gleb è un virtuoso, la popolare domra, antenata della balalaika, simile al liuto, e la chitarra classica. La musica, che traversa tutto il testo, si offre come il prisma attraverso cui Gleb percepisce la realtà: abituato a pensare per immagini musicali, le persone gli appaiono come note su un pentagramma e anche gli strumenti gli sembrano umanizzati. La custodia della sua chitarra, dove regna il silenzio, è per lui simile a una bara.

Tessuto di riferimenti e allusioni alla letteratura russa, da Turgenev a Cechov, da Karamzin a Puškin, Brisbane è l’espressione diretta di un mondo, sia interno che esterno, dipinto da Vodolazkin in contraddittoria e intrigante unità e con grandiosa leggerezza. Al centro della narrazione stanno il suono delle parole, le declinazioni di nomi in russo e in ucraino, le etimologie, e anche una rivista che pubblica solo titoli palindromi (sui quali si è esercitata la perizia del traduttore).

Il nonno di Gleb, che interviene per sostenerlo nella sua crisi adolescenziale, si chiama Mefodij, nome del monaco greco che insieme a Cirillo è all’origine dell’alfabeto russo. Perfino il titolo Brisbane ha una funzione foneticamente accattivante: niente altro che un suono, allude a una Australia così lontana che nessuno l’ha mai vista, luogo del desiderio, della realizzazione, dell’altrove irraggiungibile.