A ennesima dimostrazione del fatto che i romanzi parlano dei loro autori più eloquentemente di quanto non facciano le rispettive biografie, spesso esibendo un contatto con l’inconscio più stretto di quanto non accada nei racconti di vita (basterebbe pensare ai Fatti che Philip Roth pretende di sottoporre al suo alter ego) arriva ora il carteggio tra Paul Auster e J. M. Coetzee titolato Qui e ora Lettere 2008-2011 (traduzione di Massimo Bocchiola e Maria Baiocchi, pp. 236, euro19,50, in uscita martedì).

I due scrittori, che si conobbero all’Adelaide Literary Festival, in Australia, decisero di rimanere in contatto scambiandosi lettere rigorosamente scritte a mano, che spedivano a volte per posta, altre volte tramite fax. Nulla in questa corrispondenza tradisce davvero il carattere degli autori coinvolti, fatto salvo il diverso coefficiente di narcisismo esplicitato, tutto a carico della bilancia di Auster, che tende più dell’altro a parlare di sé e dei suoi libri, sebbene sia chiaro che la riservatezza di Coetzee gli suggerisce di contenersi. Inoltre Auster si dimostra più coinvolto nei fatti della politica e più incline all’indignazione, tende a diventare apodittico, è certamente più sentimentale, e a trent’anni dall’incontro con sua moglie Siri Hustved dichiara che gli si inumidiscono gli occhi dall’orgoglio per la bravura di lei.

Coetzee, invece, è più ritirato, non accenna quasi ai suoi libri o se lo fa è per evocare problemi metodologici; nomina sua moglie solo per associarla ai saluti, non entra mai in questioni personali, né racconta di aneddoti in cui si sia ritrovato coinvolto. Da entrambi i lati, la natura degli argomenti trattati fotografa uno scambio che (ovvie eccezioni a parte) potrebbe avvenire solo tra due uomini, perché l’unica parte di sé autorizzata a esprimersi è quella coinvolta nel proprio lavoro, mentre per il resto si teorizzano questioni relative all’amicizia, alla crisi finanziaria, alla politica (poco), allo sport (molto), ai viaggi, alla inopportunità dei critici, sempre garantendo alle proprie riflessioni quella superficialità che le mantiene sul livello di una chiacchierata davanti a un bicchiere di vino.

Il carteggio ha inizio più o meno all’epoca in cui Coetzee sta concludendo Tempo d’estate, il terzo movimento di quella che ha chiamato la sua autre-biography, dove si misura con la portata del fallimento cui è destinato il personaggio al quale ha consegnato il suo nome. Non soltanto infierisce sull’uomo – un fallito, inconsistente e per giunta dotato di scarsa virilità – ma anche sullo scrittore, che descrive come incapace di intuizioni originali sulla condizione umana, e per di più negato a forzare il mezzo espressivo: troppo «freddo, troppo pulito», dotato di «poca passione». Nessuna di queste considerazioni su di sé, o quanto meno sull’altro da sé chiamato Coetzee, filtra nel carteggio con Paul Auster, che lo scrittore sudafricano sembra tenere gelosamente al riparo dall’espressione di ciò che più gli somiglia.

La prima lettera riguarda – classicamente – questioni relative all’amicizia, e attinge a Aristotele, che affermando come non si possa essere amici di oggetti inanimati dimostra che alcuni postulati sembrano essere filosofici ma altro non sono se non regole grammaticali. Dopo avere ripercorso altri luoghi classici dell’amicizia, per esempio il fatto che vedersi non sembra indispensabile, e che non si può essere amici di una donna se non passando attraverso il suo letto, Coetzee conclude eleggendo la trasparenza a requisito connotante di un rapporto amicale.

Più scetticamente, Auster avanza contestazioni a conforto delle quali fa cadere sulla pagina la citazione di tre dei suoi libri, mentre dalla vita vera (la sua naturalmente) trae l’esempio di una lunga, paludata e affettuosa frequentazione con un amico che gli assicura conversazioni «quasi senza eccezione, scialbe e insulse, veramente banali». Non si può dargli torto, tuttavia, quando afferma che le amicizie migliori e più durature sono basate sull’ammirazione, sentimento sul quale Coetzee introduce, ancora una volta, i suoi rimandi alla filosofia, escludendo anche che l’attrazione fisica possa essere un fattore funzionale.

L’ammirazione evocata da Auster è il ponte che porta Coetzee a affrontare uno dei temi più trattati nel carteggio, quello dello sport, naturalmente non sotto forma di resoconto di qualche partita bensì come spunto per interpretare i sentimenti che mette in moto nell’animo umano, i conflitti psichici che si nascondano nella competitività e la nobiltà intrinseca alla sconfitta.

A Auster, che gli ha scritto evocando il piacere della competizione, Coetzee risponde che allo spirito della gara associa piuttosto «la sensazione di essere completamente posseduti, uno stato in cui la mente ha un’unica assurda meta: sconfiggere uno sconosciuto che non ti interessa, che non hai mai visto prima e non rivedrai mai più».

L’avvio del carteggio coincide con l’inizio della crisi finanziaria, un altro dei grandi temi sui quali si esercitano i due scrittori: a Coezee, gli operatori inchiodati ai monitor dei loro computer appaiono come i prigionieri della caverna di Platone, intenti a fissare ombre sui muri. Entrambi confondono le apparenze con la realtà, così che basterebbe resettare quei segni arbitari che sono i numeri e sostituirli con cifre a noi più vantaggiose e la crisi sarebbe dissolta. Alcune lettere più avanti, Coetzee torna sulle sue considerazioni, e decide che sarebbe in realtà meglio agire sulla memoria storica dell’economia, perché – lo riconosce – quei numeri si iscrivono nella trama di un passato. Abbandona dunque quella che chiama la «soluzione radical-idealista» e fa suo l’esempio di Borges, che avendo ipotizzato l’irruzione di una enciclopedia nel corpo della nostra memoria storica ne fa derivare la possibilità che un nuovo passato sostituisca quello a noi già noto, e un presente inedito soppianti quello esistente. La resistenza – conclude Coetzee – non è nei numeri della crisi, bensì dentro di noi, che preferiamo immergerci in questa triste congiuntura, invece di «ipotizzare una nuova realtà negoziata».

L’azzardo relativo alle ipotesi sulla finanza non è l’unico che si prendono i due corrispondenti: uno molto più grande Paul Auster lo tenta, in tutta serietà, nelle pagine che riserva alla crisi mediorientale. Sostiene di avere formulato alcune idee utopistiche nel corso degli anni, ma di essere ormai approdato a una soluzione che gli sembra la migliore: «Evacuare tutti gli abitanti di Israele e assegnare loro lo stato del Wyoming». Al confronto, il fantomatico programma politico ideato dal personaggio di Philip Roth in Operazione Shylock, ovvero che gli ebrei israeliani di origine ashkenazita (nucleo fondatore dello Stato di Israele) tornino ai loro paesi d’origine, è una ipotesi molto più sensata e praticabile.

Evidentemente, essere dotati di una certa reputazione non induce a difenderla bensì a impugnarla come un’arma per autorizzarsi a rendere pubblico tutto quanto passa per la propria testa. Difficilmente, del resto, un autore procede verso la fama potenziando al tempo stesso il suo spirito autocritico: basterebbe guardare alle reazioni inconsulte che le stroncature dei propri libri provocano agli scrittori. Ce n’è un saggio anche in questo carteggio, quando Auster racconta, con una certa soddisfazione, un anedddoto il cui succo è che trovatosi nella opportunità di spaccare la faccia a un giornalista responsabile di avere criticato un suo romanzo, lo ha invece lasciato andare incolume. E Coetzee gli risponde che sì, il critico è come un bambino quando «getta sassi al gorilla allo zoo, perché sa che è protetto dalle sbarre». Le sbarre, per chi non lo avesse capito, sono la testata il giornale in cui si lavora (!) Commovente è poi lo sconcerto che si impossessa di Auster alla lettura di un testo di Franzen che, con la consueta ironia, scoraggia il consumo di romanzi in quanto responsabili di un doppio dilemma morale: se non li si legge ci si sente in colpa e se li si legge ci si sente immersi in una azione frivola. «Mi gratto attonito la testa» commenta Paul Auster, subendo quella che gli sembra una dichiarazione autolesionista; mentre Coetzee gli risponderà che «rastrellare le foglie in giardino» gli sembra una attività preferibile a quella di leggere romanzi che non tentino qualcosa di nuovo: «preferibilmente sul piano formale». Naturalmente, non è questo il carteggio dal quale aspettarsi che dica a chiare lettere a chi si riferisce.