Quest’anno Fuori Formato propone due profili dedicati a Johannes Gierlinger e Antoinette Zwirchmayr, due voci tra le più interessanti e peculiari di una nuova generazione di filmmaker austriaci. Gierlinger e Zwirchmayr sono anche uniti da un’amicizia di lunga data, ma a parte questi dettagli biografici, a prima vista i loro film non potrebbero apparire più distanti. Non è facile infatti individuare termini di paragone tra l’irrequieta flanérie e l’urgenza politica dei saggi filmici di Gierlinger e la plastica fissità che informa le opere di Zwirchmayr con la loro carica mitopoietica e sensuale. Eppure, tramite approcci e stili tanto diversi, le loro opere si ritrovano entrambe a giocare su una frontiera indefinita tra documentario e sperimentazione, tra memoria e finzione, configurando il cinema come uno spazio di possibilità attraversato dal lavoro dell’immaginazione, che si rapprende in oggetti conturbanti oppure esplode in una fuga di prospettive, dove il senso si intravede e resta sospeso nello scarto tra immagini e parole.

Entrambi sono a proprio modo testimoni di un movimento incessante di scoperta di sé e del mondo, dove la riflessione intellettuale si radica sempre nell’esperienza sensibile e da questa è sempre destabilizzata e rilanciata. Forse il punto decisivo in cui i loro percorsi s’incontrano è nell’attenzione e nella fedeltà al frammento come unità compositiva, sia questo estratto dal turbine del reale come in Gierlinger o distillato in un’elaborata messa in scena come in Zwirchmayr. Frammenti che testimoniano di un ordine complesso da ricostituire, rovine allegoriche perché, etimologicamente, parlano sempre di altro: di una realtà che sogna il proprio contrario, di un’allucinazione che ci interpella con l’intimità di un vecchio ricordo.

Frammenti irradiati di luce e scolpiti dal tempo, come materia organica incastonata in una goccia d’ambra, sono i corpi di cui Zwirchmayr popola la rarefazione delle sue scene, reperti fragili e persistenti di una personalissima mitologia. La sua messa in scena sembra spesso coniugare due forme tradizionali di rappresentazione come la natura morta e il tableau vivant, ma riformulando sapientemente la dialettica tra vivente e non vivente che gioca in entrambi questi generi: esaltando la prospettiva non antropomorfa della macchina cinematografica, il suo sguardo assume senza discrimini o gerarchie il corpo umano, gli oggetti e il paesaggio, che si ritrovano in formazioni inaspettate, in equilibrio tra bellezza e difformità, incontri tra l’organico e il minerale che sono a un tempo seducenti ed inquietanti, algidi e palpitanti. Questo gioco sottile tra concretezza e allusione non si limita però allo squisito formalismo della composizione, ma si traduce anche in un’attenta modulazione della narrazione in quello che è il suo progetto di più largo respiro, la trilogia Woran ich mich erinnere, dove la sua romanzesca storia famigliare è presentata in una collezione di figure e motivi ricorrenti, un teatro della memoria il cui allestimento polifonico è la progressiva costruzione di un’identità.

I film di Gierlinger come lui stesso li descrive, sono una «ricerca di tracce», una ricognizione rapsodica di indizi condotta dentro e contro il proliferare di immagini che satura il presente. Tracce che, ancora, restano tali in quanto frammenti: ipotesi di origini perdute, note a pagine strappate, schegge impazzite di un corpo sociale in disgregazione. Tracce che non vengono imbandite alla bulimia ermeneutica, perché più che interpretare il mondo contemporaneo, pretendono di interrogarlo attraverso ciò che esso è stato e ciò che potrebbe essere, rilevando il pulsare di movimenti e rivolte che ancora sfuggono alla concrezione ideologica che ci si abitua a chiamare realtà. I suoi film sono mappe che rendono conto solo degli intervalli tra un luogo e un altro: guide a città invisibili, immaginate in un dialogo che procede per dissonanze, ricostruite in uno sguardo che è sempre restituito da un altrove. Oppure spedizioni in città reali, come Bialystok, popolate da fantasmi rimossi, teatro di un presente amnesico e frustrato.

Folgorazioni psicogeografiche, interferenze fra strati memoriali, perché solo lo slittamento di cronologie e territori che è l’essenza del viaggio e del montaggio, apre fessure da cui intravedere un luogo che davvero ci appartenga, un futuro che non paralizzi il presente, ma inviti a nuovi spostamenti.
In Die Ordnung der Träume, Gierlinger si chiede se il vero gesto rivoluzionario consista nello svegliare chi dorme o nel lasciarlo sognare. Forse la soluzione risiede nello scarto tra queste opzioni, nello strabismo che consente di inquadrare l’affinità/differenza tra questi due filmmaker e seguire al tempo stesso i nervosi salti analogici di Gierlinger e lo sprofondamento contemplativo di Zwirchmayr. Forse possiamo concederci di non sciogliere il dilemma, se confidiamo ancora nel cinema e nella sua promessa di superare l’impietosa alternativa tra sogno e veglia. E tanto Gierlinger quanto Zwirchmayr ci suggeriscono come una strada praticabile e desiderabile stia nell’attraversare incessantemente quella soglia.
(Il programma dedicato a Gierlinger sarà sulla piattaforma MyMovies di Filmmaker per 72 ore a partire da mercoledì 2 dicembre, quello dei lavori di Zwirchmayr dal giorno dopo)

*curatore della sezione Fuori Formato