Fino agli ultimi giorni della campagna elettorale si è riaperta la questione Rai, ma quello che stupisce è il generale silenzio politico intorno a una vicenda determinante per il futuro della nostra democrazia. Se il tema della Rai, infatti, fosse riducibile a quello del destino di qualche decina di migliaia di persone, potremmo derubricarlo a fatto di natura sindacale, un problema occupazionale o di ristrutturazione come quello di Alitalia, di Telecom, di Poste, dell’Ilva, della Fiat, dell’Electrolux, della Lucchini, dell’Alcoa, delle miriadi di aziende del Veneto.

Il ruolo e l’esistenza di un servizio pubblico radiotelevisivo forte e autonomo connota, invece, la qualità di una democrazia. E pensare che il Pd aveva anche scelto di portare nel cda di viale Mazzini due persone indicate come espressione di associazioni proprio per segnalare il tema complessivamente «democratico» del servizio pubblico radiotelevisivo! Invece nessuno scatto di orgoglio interno, di chi è lì in rappresentanza della famosa «società civile», per richiamare l’attenzione di associazioni, cittadini, politici e spiegare cosa significa la riduzione degli spazi della Rai. Nessun lancio di una strategia alternativa per rinnovare le radici di un servizio pubblico che ha perso la propria finalità e prosegue per inerzia. Nessuna voglia di sperimentare, nell’era della crossmedialità, nuovi confini e nuove modalità comunicative. Nessuna mobilitazione esterna a difesa di un bene primario come quello di una comunicazione sganciata da interessi imprenditoriali e finalmente autonoma dai partiti. In questa situazione nessun segnale dal management Rai. Nessun rilancio di strategia o la volontà di uscire dal tran tran della discussione sui contratti di Vespa, Fazio o di Sanremo.

Nessuna indicazione di strategia per il futuro del paese nel nuovo scenario della comunicazione digitale, quindi, né del management aziendale, né dell’attuale governo. Solo tagli o tentativi di far cassa. Una democrazia è tale, dovremmo averlo appreso, se i flussi di comunicazione sono liberi e non “arginati” in confini precostituiti, se la produzione culturale mantiene non solo la sua funzione intrattenitrice ma la sua funzione critica, proprio come l’informazione. Non basta essere il tg più visto o dare «per primi» la notizia. La missione è creare, costantemente, occhiali nuovi, critiche non mediate.

E la sinistra ha un’idea di cosa sia la spina dorsale comunicativa di un paese democratico? Ha percezione che se si perde questa battaglia perderemo l’ultima arma in grado di opporsi alla logica «dell’industria di senso» che è in grado di omogeneizzare e sussumere ogni aspetto comunicativo e triturare la percezione del presente e piegare a sé ogni futuro?

Oggi bisogna dire di no al governo, ma indicare una strada alternativa. Prendiamo il «problema Raiway», la società che controlla le frequenze radiotelevisive. È uno dei principali tesori dell’azienda, insieme alle «teche», ed è fondamentale anche per la nuova fase del settore delle Tlc. Le esigenze di copertura dei nuovi servizi a banda ultralarga necessitano di frequenze di trasmissione e chi metterà le mani su quell’azienda non lo farà certo per garantire una migliore gestione dell’attuale ruolo che svolge per la Rai. Ma c’è una strada alternativa che è anche in grado di riaprire un processo strategico per il paese. Separare RaiWay dalla Rai e costruire, intorno al quel nocciolo di competenze e impianti, una «Azienda Pubblica di Rete» che spinga il paese verso il futuro digitale. Una volta scorporata, tale azienda, dovrebbe garantire per un lungo periodo, diciamo 10-15 anni, la diffusione gratuita del segnale della Rai e in seguito farlo solo al prezzo di costo industriale garantito dall’Agcom. In tale azienda potrebbero confluire tutte le reti, oggi esistenti, che vogliano essere dismesse dagli attuali gestori, spingendoli a tornare «fornitori di servizi», aderendo alla ispirazione «europea» che vedeva una incompatibilità tra chi possiede le reti e chi pensa e produce i contenuti. Analoga proposta andrebbe fatta a Telecom Italia creando le risorse, tecniche ed economiche, per dotare il paese della rete di nuova generazione, pubblica e neutrale.

L’azienda diventerebbe così un asset nazionale con un patrimonio strategico in grado di attirare risorse di natura obbligazionaria, anche privata, e sulla quale far convergere le risorse della Cassa Depositi e Prestiti per la realizzazione della banda ultra-larga necessaria per riprendere il terreno di un nuovo modello di sviluppo. Questa società non solo sarebbe in grado di fare sviluppo di qualità al proprio interno, ma anche di garantire un salto generalizzato nella qualità dell’occupazione dell’intera economia italiana che approderebbe, finalmente, all’era digitale in tutti i settori come è avvenuto in tutti i paesi avanzati.

È una necessità strategica e politica che parlerebbe non solo al nostro paese, ma rappresenterebbe una risposta alla possibile decisione americana di intraprendere lo sviluppo del web a due velocità. Non solo, una tale infrastruttura potrebbe garantire standard di privacy e di trasparenza nelle nostre comunicazioni di nuova generazione che sono sempre più necessari per garantire le nostre libertà nelle società digitali. E potrebbe garantire spazi di sperimentazione sociale all’utilizzo di quel bene comune così prezioso che sono le frequenze e le reti di comunicazione.

Sarebbe una ipotesi alternativa percepibile, in grado di legare la battaglia per una qualità nuova e più avanzata della nostra democrazia al tema di un nuovo modello di sviluppo, in grado di connettere l’innovazione digitale nella produzione classica ma anche di estendere esperienze legate a nuove forme di organizzazione della vita sostenibile come le economie a Km0, i GAS, le filiere corte, i makers, le tecnologie 3D.

Per questi e altri cento motivi, la discussione sul futuro della Rai non può essere lasciata solo ai dipendenti dell’azienda e assume una valenza politica generale. Serve un tavolo di tutti i soggetti interessati che si riunisca al più presto.