A tale of two cities: così, citando il romanzo di Dickens, avrebbe potuto intitolarsi la mostra attualmente aperta alle Scuderie del Quirinale (ancora fino al 6 gennaio 2020).
Le due città sono Pompei e Santorini, due siti antichi accomunati da uno stesso destino, quello di essere stati distrutti da una terrificante eruzione. Anche il titolo scelto, però (Pompei e Santorini. L’eternità in un giorno) allude a un’opera letteraria. Elle est retrouvée. / Quoi ? – L’Eternité sono versi di Arthur Rimbaud (già riecheggiati dal titolo di un romanzo di Marguerite Yourcenar). Un giorno o poco più, in effetti, fu sufficiente ai due vulcani per fermare il tempo e consegnare all’eternità tanto il centro campano che l’isola delle Cicladi. Paradossalmente, la distruzione che pose termine alla loro esistenza ha anche sigillato, preservandole, informazioni preziose per ricostruire la civiltà di cui erano espressione. A ben vedere altre due parole della stessa poesia di Rimbaud avrebbero potuto fare da epigrafe a questa mostra: Science avec patience. Come caratterizzare meglio la fatica degli archeologi, che quell’eternità hanno riattualizzato, recuperandola pezzo dopo pezzo alla storia?
La vicenda dei due siti è diversa: Pompei fu seppellita nel 79 d.C., Akrotiri (ovvero Thera Alta, dall’antico nome dell’isola che qualcuno vorrebbe identificare con l’Atlantide di Platone) diciassette secoli prima, intorno al 1600 a.C.; Pompei è stata scavata a partire dal 1748, Akrotiri praticamente solo dal 1967. I due curatori (Massimo Osanna, Direttore del Parco Archeologico di Pompei, e Demetrios Athanasoulis, Direttore delle Antichità delle Cicladi) hanno avuto l’idea di mettere a confronto la Pompei romana e la «Pompei dell’Egeo» estraendo dalle rispettive ‘capsule del tempo’ oltre trecento oggetti, tutti – bisogna dirlo – di qualità molto alta oltre che ben conservati (e va sottolineato che è la prima volta che materiali di Santorini sono esposti fuori della Grecia), che testimoniano della cultura materiale e artistica di due società distanti fra loro nel tempo ma non troppo nello spazio, essendo entrambe fiorite in quel Mediterraneo che Platone definì «uno stagno», ed entrambe straordinariamente vivaci e avanzate.
Il percorso della mostra inizia con Pompei, ‘punto medio’ nella scala del tempo tra noi e Akrotiri, che cessò di esistere nella tarda Età del bronzo. Le case di Pompei, con la loro articolazione funzionale, la loro elegante decorazione musiva e pittorica, la loro squisita suppellettile danno un’idea del way of life dei loro abitanti, anche se limitatamente ai ceti più agiati.
Fanno loro da pendant le case di Akrotiri, in ognuna delle quali è stata trovata almeno una stanza affrescata. La mostra offre una significativa scelta di questi straordinari incunaboli della pittura parietale europea, tra cui l’affresco sapidamente naturalistico dei giovani pescatori (forse testimonianza di un rito di passaggio all’età adulta), quello con il fregio miniaturistico raffigurante un fiume, con uccelli acquatici e altri animali (c’è anche il favoloso grifone) e un altro raffigurante una dea in trono che riceve da una scimmia dall’improbabile pelame azzurro l’offerta di stimmi di croco (la pianta da cui si ricavava il prezioso zafferano). Non manca un’ampia selezione di splendidi vasi, dipinti con motivi che sembrano quasi anticipare il Liberty, e altri oggetti di uso quotidiano, fra cui calchi in gesso di raffinati mobili in legno.
Quello che manca, o che quanto meno avrebbe potuto esserci in misura maggiore, è una narrazione che coinvolga il visitatore e lo guidi in tutto il percorso. Il pannello iniziale dà le coordinate essenziali, e via via le didascalie dei pezzi esposti offrono punti di appoggio, ma una così singolare storia parallela avrebbe meritato un esteso storytelling, di sicura presa sul pubblico. Come spesso avviene, anche in questo caso molto si è voluto demandare al catalogo (una coedizione Scuderie del Quirinale-L’Erma di Bretschneider, pp. 272, € 36), che raccoglie autorevoli contributi su varie tematiche afferenti alla mostra, ma che non sostituisce la narrazione unificante.
Particolarmente apprezzabili i saggi di Luigi Gallo (Eruzioni sublimi. Le catastrofi vulcaniche nell’immaginario artistico moderno e contemporaneo) e di Anna Mattirolo (La memoria del futuro: riflessioni tra archeologia e contemporaneità), che mettono a fuoco uno degli assi portanti della mostra: l’impatto che le eruzioni vulcaniche e i ritrovamenti di Pompei – specialmente i calchi delle vittime – hanno avuto sugli artisti, dal Settecento, quando si afferma l’estetica del Sublime, a oggi.
Attraverso le opere degli autori presenti (e fra essi si contano William Turner, Giovanni Maria Benzoni, Filippo Palizzi, Arturo Martini, Renato Guttuso, Andy Warhol, Anthony Gormley, Richard Long, Allan McCollum, Damien Hirst) si snoda un filo rosso – rosso come la lava – che attraversa la temporalità ‘diversa’ (Foucault parla di eterocronia) della rovina.
Come ci ha insegnato Marc Augé, c’è uno scarto fra il tempo contingente, che passando lascia dietro di sé macerie e detriti, e il tempo puro che si manifesta in reperti come quelli oggetto di questa mostra, obliterati da un repentino evento geologico che li ha situati in una zona di confine tra natura e storia: un tempo che è passato ma che dura indefinitamente.
Sarebbe stato bello vedere esposto in questa mostra Gli ultimi visitatori di Pompei di Carel Willink (1933), un notevole esempio di ‘realismo magico’ dove dei signori elegantemente vestiti sembrano attendere sotto il Vesuvio fumante un ‘finale di partita’ che c’è già stato: bella metafora dell’eternità ‘in un giorno’. Un giorno che è insieme ieri, oggi e domani.