Durante la sua prolifica carriera di artista il migliore ritratto di Marcello Dudovich lo fece Leonardo Borgese: «Artista visivo e rappresentativo, per nulla letterato, e che fu raccontatore solo mediante l’immagine e il tipo».
È il 1968 quando il critico milanese dà questo icastico profilo dell’artista triestino. L’occasione gli fu offerta dalla mostra milanese di Dudovich allestita in Palazzo Reale. Accanto ai suoi manifesti per La Rinascente, Bugatti, Florio, Marzotto, Borsalino, Pirelli e tante altri marchi, non si era trascurta una adeguata selezione di opere pittoriche e di disegni, ma i suoi scatti fotografici erano assenti.
D’altronde è stato così anche due anni fa, quando era propizio lo scavo critico sui processi creativi del nostro cartellonista, vista la mostra LR100, Rinascente Stories of Innovation, allestita per il centenario del brand del grande magazzino. Eppure i tanti scatti di Dudo (così chiamato dagli amici) erano noti agli studiosi perché conservati nella collezione di Salvatore Galati. Fu grazie a questa collezione se si realizzò la monografica su Dudovich del Museo Revoltella di Trieste (2003), curata da Roberto Curci, giornalista e critico d’arte triestino.
Ora Nicoletta Ossanna Cavadini, direttrice del m.a.x. museo di Chiasso, ha chiamato ancora Curci per l’esposizione Marcello Dudovich (1878 -1962) Fotografia fra arte e passione (fino al 16 febbraio). Siamo così giunti a conoscere con più precisione la relazione che il cartellonista triestino intrattenne con la fotografia.
Innazitutto c’è da dire che per lui la fotografia non aveva alcuna legittimità espressiva. La confinò a espediente meccanico della moltiplicazione di movenze e fondali utili per l’opera-finale al pari di uno schizzo preso su un taccuino. Il suo incontro con il mezzo fotografico accadde prestissimo. Quando arrivò ventunenne nello stabilimento bolognese di Edmondo Chappuis già ne faceva un uso «smaliziato». Prima di allora la fotografia era impiegata da Leopoldo Metlicovitz nelle Officine Grafiche Ricordi di Milano, dove Dudo aveva svolto (1897-’99) il suo apprendistato dopo il diploma alla Scuola per Capi d’Arte di Trieste, città dove era nato nel 1878.
A cavallo del secolo era ormai superata la fase aurorale della fotografia e al corpo sparuto dei professionisti subentrò quello più numeroso dei dilettanti. Tra questi Dudovich, che, come detto, non considerò mai la fotografia in senso artistico o «pittorico», come i suoi contemporanei statunitensi Steichen o Stieglitz, o come Guido Rey, a lui forse più noto perché protagonista della sezione di «fotografia artistica» nella I Esposizione internazionale delle arti decorative (Torino, 1902): episodio centrale, a cui lo stesso Dudovich partecipò, nella nascita del Liberty.
È in questa posizione di perplesso osservatore delle possibilità della fotografia che Dudo assume per noi un vero interesse e una indubbia attualità: basta «calibrare» i suoi scatti, ad esempio, all’interno del discorso teorico di Rosalind Krauss (Le Photographique, 1990), per i loro significati «indiziali» e non «iconici», ovvero, con riferimento a Peirce, per la loro «connessione esistenziale» o «presenziale» e non per le loro sembianze «rappresentative».
Pertanto le immagini in mostra sono eloquenti «tracce» o «impronte» bene ordinate, come suggerisce la Cavadini in catalogo (Skira), tra soggetti di studio (modelli e modelle), souvenir di viaggi e momenti «intimi» in famiglia e con amici. Dudovich amava «fotografare e essere fotografato». Aveva la consapevolezza «di essere tanto bravo e tanto bello e tanto amato» (Curci), e lo mostrò in uno stile originale, che Borgese definì «litografico», rintracciabile nella sua «sintesi del tratto e del colore», cha rimanda a Daumier, Chéret, Toulouse, Steinlen. È indubbio che la fotografia, pur nel suo ruolo ancillare, abbia contribuito a formare una nuova estetica, e i manifesti di Dudovich certificano per primi la trasformazione della concezione dell’arte attraverso «il fotografico».
Nell’Europa 1911-’14, corrispondente per la rivista satirica Semplicissimus dell’editore monacense Albert Langen, egli ebbe modo di raccontare con il disegno (album «Corso») l’eleganza di un mondo che andava scomparendo sotto il «rombo della Bertha», (Giulia Veronesi).Tuttavia da quel periodo dove il privilegio di classe assumeva le forme del «molle gesto decorativo» dell’Art Nouveau, Dudo poté emanciparsi solo grazie all’impiego della fotografia, senza la quale non avrebbe conquistato quella flagranza del segno che lo contraddistinse, anche come pubblicitario ante litteram.
Un ultimo aspetto ce lo rende moderno: l’attrazione per il mistero celato nel movimento dei corpi, fosse quello dello scimpanzè-mascotte Pierrette (per Borsalino) o della dama bianca con il suo velo (per Pirelli). I due soggetti, ripresi in sequenza, fanno intendere che l’«inconscio ottico» – scoperta benjaminiana – lo riguardò da vicino. Forse anche in Dudovich era viva l’idea che, nella riproduzione seriale, «i movimenti di massa si presentano più chiaramente di fronte ad un’apparecchiatura che non per lo sguardo». Forse è questa la ragione dell’interesse per la fotografia di Dudo: contributo vitale per la sua arte litografica