Charles Sterling nel film del Louvre, intervistato da Michel Laclotte, 1990
Georges de la Tour, “Buona ventura”, New York, Metropolitan Museum

«Charles Sterling l’oublié». Così titola una recensione comparsa su Le Monde al libro di Marie Tchernia-Blanchard, Dans l’oeil d’un chasseur Charles Sterling (1901-1991), historien de l’art (Presses du Réel, pp. 400, euro 30,00). Sterling dimenticato dal mondo della cultura francese? Non proprio. Ad esempio, lo storico dell’arte è più volte ricordato nell’intrigante esposizione del Louvre Les choses. Une histoire de la nature morte, conclusasi un mese fa. Non poteva essere diversamente, Sterling era un’autorità in materia, avendo organizzato al Louvre, esattamente settant’anni fa, La Nature morte de l’Antiquité à nos jours, rassegna imponente che sanciva la gloria di un genere sino ad allora considerato minore.
Tchernia-Blanchard sottolinea come per lo storico dell’arte la ricerca filologica si sia accompagnata sempre a una concreta attività di catalogage delle collezioni e all’organizzazione di grandi mostre. Le esposizioni costituirono per Sterling un campo di progressiva affermazione professionale, fino a diventare il paradigma stesso della storia dell’arte: «in effetti ogni libro di storia dell’arte, in cui sono riunite e affiancate opere d’arte sparse nel mondo, può essere definita come una esposizione immaginaria», scriveva nel 1987 (La peinture médiévale à Paris. 1300-1500), non senza fare eco ad André Malraux. Con la sua attività Sterling impresse decisamente una spinta verso il rinnovamento in senso moderno delle mostre, considerate come il dispositivo più adatto alla messa in scena e alla divulgazione dell’arte.
Da questo punto di vista il libro di Tchernia-Blanchard è una biografia intellettuale in senso pieno, ma è anche molto di più. Andando ad arricchire la serie, ormai cospicua, di studi dedicati ai principali protagonisti della storia dell’arte in Francia, il volume su Sterling si inquadra nel solco della transalpina ‘storia della storia dell’arte’, campo di studi interessato alla ricostruzione delle figure dei protagonisti, nella prospettiva ampia di storia sociale delle istituzioni accademiche e museali, delle professionalità, delle relazioni internazionali. Attraverso la figura dello studioso, la cui esistenza ha attraversato praticamente tutto il Novecento oscillando tra Francia e Stati Uniti, l’autrice può così ripercorrere la storia del Louvre, del collezionismo e della connoisseurship in Francia tra primo e secondo dopoguerra.
Nato nel 1901 a Varsavia da una famiglia ebrea benestante, Sterling giunge a Parigi nel 1925 e diventa allievo di Henri Focillon alla Sorbona. La sua inclinazione si rivela allorché decide di seguire i corsi dell’École du Louvre, dove l’insegnamento della storia dell’arte era consolidato da quasi mezzo secolo e dove stava nascendo una specifica cattedra di museografia. Studente brillante, alla fine del 1929 Sterling entra al Louvre come attaché de conservation; la lettera di raccomandazione di Focillon è premonitrice: «Sterling promette di diventare qualcuno nel campo della pittura antica, possiede una conoscenza approfondita e, ciò che è più raro, ‘l’occhio’». L’attività del giovane, svolta a titolo gratuito, incrocia una fase di intensa riorganizzazione in senso moderno delle collezioni del museo, iniziata con la direzione di Henri Verne e potenziata attorno al 1937 da René Huyghe. L’apporto del giovane al rinnovamento del Louvre è cruciale. Sterling viene inviato in missione all’estero per studiare i musei più all’avanguardia da prendere a modello; ma soprattutto gli viene affidata la redazione del catalogo delle collezioni di pittura francese, in particolare di quei ‘primitivi’ che dall’inizio del secolo, con la memorabile mostra del 1904, avevano iniziato a godere di una particolare attenzione, scientifica e di mercato.
Con quella mostra era nata l’idea di una scuola pittorica francese ben distinta da quella fiamminga, e si dava inizio a una vera e propria genealogia artistica nazionale che sarebbe stata suggellata dalla grande mostra del 1937 voluta dal Front Populaire, Chefs-d’œuvre de l’art français. In questo contesto di costruzione identitaria si inserisce l’opera di Charles Sterling, che nel 1938 pubblicherà La peinture française: les Primitifs, primo libro ad affrontare in modo sistematico la pittura dei secoli XIV e XV, ben meditato anche da Erwin Panofsky, il quale pare lo commentasse così: «per la prima volta si è potuto vedere un dipinto francese riprodotto a fianco di quelli fiamminghi e italiani; per la prima volta ci si è resi conto di quanto un Primitivo francese, se comparato a un fiammingo sembri italiano, se comparato a un italiano appaia fiammingo».
Ricerche in Borgogna
La cautela dell’autore di Early Netherlandish Painting verso l’idea di una precisa identità artistica francese non era condivisa da Sterling, anzi. Negli anni egli rivisitò con ricerche approfondite l’arte della Borgogna, andando a metterne in luce i principali esponenti, ma anche cercando, come Tchernia-Blanchard mostra bene, di delineare una larga civiltà artistica i cui caratteri iniziano già in epoca carolingia per giungere inalterati fino a Watteau, passando dai Limbourg e da Philippe de Champaigne. Per Sterling quella francese del primo Quattrocento è un’arte «al tempo stesso palpitante di vita e moderata da un severo rigore plastico».
Questa costruzione intellettuale, per cui la cultura artistica francese sarebbe segnata da elementi opposti ma armonizzati in un’astratta dimensione spirituale, si inserisce appieno nella cultura orientata in senso nazionalista degli anni trenta, e trova il suo acme nella grande esposizione del 1934 dedicata ai Peintres de la réalité en France au XVII siècle, allestita all’Orangerie da Paul Jamot, ma di cui Sterling fu l’impalcatura portante – l’evento è stato ‘rivisitato’ con una mostra, nello stesso museo, nel 2006-’07. Alle ricognizioni di Sterling nei musei di provincia si devono i circa 150 dipinti per la prima volta riuniti insieme; soprattutto egli fu l’artefice di quel catalogo così preciso e articolato, in cui volle includere anche un saggio dell’allora autorità riconosciuta per il caravaggismo europeo, Roberto Longhi. Sterling (che proprio nel 1934 ottenne la nazionalità francese) vi scrisse di un «istinto della razza», di un temperamento comune agli artisti francesi, che ai suoi occhi brillano «come sassi levigati dalle onde del mare», risaltando nella «giungla artistica romana». Dalla mostra uscirono definitivamente consacrati i Le Nain e soprattutto Georges de la Tour, nonché l’idea di un’arte francese capace di incarnare valori rassicuranti: equilibrio, dignità modesta, misura; la stessa nozione di realismo, polivalente e controversa, venne trasformata dai curatori in una auberge espagnole pacificata: realismo del quotidiano, delle piccole cose, ben lontano dai contrasti della vita politica. Si affermava così una precisa idea di esprit francese, juste milieu conciliatore tra germanesimo e latinità, e l’immagine di un Paese, la Francia, che si voleva erede di un humanisme da contrapporre alle derive totalitarie, dei fascismi e del bolscevismo.
E tuttavia questa artificiosa operazione culturale non bastò a evitare la guerra. L’ebreo polacco-francese Sterling, che ancora nel 1940 scriveva «i francesi non si rassegneranno a scivolare nell’abisso come granelli di sabbia spinti dalle forze della morte» perché, come gli antichi Greci, «hanno una fiducia ostinata nella felice armonia dell’universo, fatta di opposte energie» (Le peintres du Moyen Age), nel 1942 si vide costretto a fuggire le persecuzioni razziali, e a emigrare negli Stati Uniti.
Rinascita a New York
Fu una rinascita. Ormai era considerato un conoscitore, e per di più non era tedesco: il direttore del Metropolitan, Henry Taylor, lo chiamò a lavorare al catalogo del dipartimento di pittura francese, opera che Sterling continuerà, come consulente, anche nel secondo dopoguerra, quando verrà finalmente assunto come conservateur en chef al Louvre: un atto dovuto verso colui che tante energie aveva dispensato per il museo negli anni trenta, poi durante l’Occupazione, quando assieme a molti colleghi aveva gestito l’evacuazione dei dipinti, ricoverandoli nei castelli e nelle abazie della zona libera.
La relazione di Sterling col mondo del collezionismo americano si inaugura con un colpo da novanta, l’acquisizione da parte del Metropolitan nel 1946 di un meraviglioso Clouet, il Ritratto di Guillaume Budé, circa 1536. Nel corso dell’‘Entretien du Louvre’ rilasciata nel 1989 a Michel Laclotte Sterling racconta i dettagli dell’episodio. Comparso nel primo dopoguerra sul mercato di Londra, il dipinto era poi passato nelle mani di importanti collezionisti americani. L’opera era già allora considerata come l’unica di attribuzione certa a Jean Clouet, in quanto il personaggio ritratto – l’illustre umanista Guillaume Budé – la ricordava chiaramente nei suoi Adversaria: «pictor iconicus qui me pinxit Genet Clouet vocatur». Con il supporto di un mercante americano, Sterling era riuscito a rintracciare la tavola, che si trovava allora in uno stato di conservazione tale da lasciare dubbiosi i Trustees del museo su una possibile acquisizione. Tuttavia vi era un dettaglio da non sottovalutare. Presentando l’opera al comitato del Metropolitan, lo storico dell’arte aveva esaltato il profilo di Budé, precisandone anche le funzioni amministrative assolte sotto Francesco I. Tra queste la più prestigiosa era stata quella di «prévôt des marchands de Paris», carica importantissima votata a garantire il pieno funzionamento della città. Ora, si dà il caso che di quel comitato facesse parte anche l’allora sindaco della città di New York, l’italo-americano Fiorello La Guardia, il quale, racconta Sterling, a questa notizia «da italiano focoso qual era, si era alzato e aveva sbattuto un pugno sul tavolo, esclamando: “He is my pal! Era un mio collega! era un sindaco! dobbiamo avere il suo ritratto!”». Epilogo paradossale, se raffrontato all’ammonimento vergato in greco sul libro che nel dipinto Budé stringe tra le mani: «Consideriamo grande ottenere ciò che si desidera, ma più grande ancora è non desiderare ciò di cui non si ha bisogno».
Tchernia-Blanchard ripercorre poi la stretta relazione di Sterling con la galleria di Georges Wildenstein, discutendo anche l’ipotesi di una possibile implicazione del conservatore nell’affaire della Buona ventura di Georges de la Tour, capolavoro ritrovato nel 1940 in un castello della Sarthe, ma misteriosamente giunto nel 1960 al Metropolitan, acquistato per una cifra da capogiro. Scandalo nazionale, che macchiò la figura del direttore del Louvre Germain Bazin e che probabilmente è da collegarsi alle dimissioni dello stesso Sterling, il quale nel 1961 abbandonò ancora una volta la Francia per andare a ricoprire un posto di full professor alla New York University.
Tornato in Francia nel 1972, Sterling dedicherà gli ultimi anni a ricerche mirate sui ‘primitivi’ di alcune regioni-chiave – la Borgogna, il Bourbonnais, la Provenza, la Savoia –, mettendo a fuoco i cataloghi di personalità dibattute (Jean Fouquet, il Maestro di Moulins alias Jean Hey, Josse Lieferinxe, ma soprattutto Enguerrand Quarton, che per primo Sterling identificò con l’autore della splendida Pietà di Avignone), e ricostruendo una geografia artistica osmotica e dinamica, rigata dagli itinerari dei maestri: «Lo storico dell’arte è come il doganiere. Gli interessano poco i passaporti, è il bagaglio che conta», ebbe a dire. E non v’è dubbio che Sterling abbia compreso tra i primi il valore della dimensione della ‘regione’ per tratteggiare una storia della pittura al di qua e al di là delle Alpi, adottando una prospettiva che avrebbe dato i suoi frutti migliori con le ricerche di Michel Laclotte e Dominique Thiébaut per la Provenza, ma anche con quelle di Giovanni Romano sui ‘primitivi’ piemontesi, per non parlare di Enrico Castelnuovo.
Interpretazione sensibile
Tuttavia in questi ultimi anni il lavoro filologico di Sterling appare viziato da un’idea sempre più astratta di «civiltà artistica francese», elemento che condiziona la pratica del connoisseur, incline ora a un vago e duttile esercizio della «interpretazione sensibile». Poco appassionato al lavoro d’archivio e acerrimo detrattore del metodo morelliano, Sterling non esitò tuttavia a riprendere l’immagine classica del conoscitore come ‘cacciatore’, vedendosi come «un chasseur dans la nuit médiévale». Definizione interessante, non solo per l’idea di un medioevo lunghissimo che avvolge tutto il Quattrocento francese in una oscurità in cui le personalità sfuggono come prede al buio, ma anche perché – come spiega Tchernia-Blanchard – fa chiaramente allusione al film di Charles Laughton, Night of the Hunter (1955), il cui titolo i francesi tradussero alla lettera. Capolavoro incentrato sull’eterna lotta tra gli opposti – Love and Hate – , ma soprattutto pellicola dalla fotografia raffinatissima, pittorica, ed effettivamente ‘gotica’, per i notturni illuminati a sprazzi da chiarori lunari e riflessi sull’acqua, luci incerte che orientano il lento, lentissimo procedere dell’imbarcazione di John e Pearl lungo il fiume della vita e della storia. Storico dell’arte finissimo, energico conservatore, Sterling, che non lasciò allievi, rappresenta certamente una figura centrale della storia dell’arte francese. La densa monografia di Marie Tchernia-Blanchard lo ha oggi sottratto definitivamente all’oblio, rendendocene statura e contrasti.