Sono innumerevoli gli studi e i libri apparsi su Marcel Duchamp, probabilmente perché è una di quelle figure chiave dell’arte del XX secolo, considerato il precursore dell’arte concettuale, colui che ha totalmente sovvertito il rapporto tra opera d’arte e mercato, ma anche l’artista che ha instaurato un nuovo modo di intendere la fase processuale, la relazione con il fruitore, ecc. Il poderoso volume (è proprio il caso di dirlo perché consta di ben 628 pagine) Duchamp – La scienza dell’arte, appena uscito per Meltemi e scritto da Marco Senaldi, è tuttavia qualcosa di piuttosto originale ed è il frutto di un lungo e accuratissimo lavoro di ricerca. L’aspetto, quasi totalmente inesplorato, è quello che riguarda l’autore del Grande Verre e le immagini in movimento, intese non solo come il cinema e i film, attenzione, ma come l’intera sfera del movimento, tanto che Senaldi intreccia diversi campi disciplinari e applica al corpus duchampiano punti di vista stimolanti: dall’ottica alla psicologia della percezione, dalla fisiologia all’estetica scientifica, affrontando la questione delle immagini ideo-motorie, delle persistenze retiniche, delle tracce mnestiche.

Ciò che ne viene fuori è un vero e proprio trattato che, per quanto complesso, scorre fluentemente sotto gli occhi del lettore, anche di quello che non conosce tutta l’opera di Duchamp. Certo, viene da domandarsi, come mai il sottotitolo, per quanto non del tutto inesatto – perché dell’interfaccia arte/scienza si parla – non espliciti tuttavia meglio il tema principale, scandagliato attraverso un poderoso apparato bibliografico.

Così il punto di arrivo di questa preziosa ricerca sembra essere individuato già nelle prime pagine del volume, quando Senaldi scrive: «La rivoluzione di Duchamp consiste nel creare immagini dinamogene, simili a quelle prodotte dalla psicologia della percezione, servendosene però in ambito artistico, come veri e propri test per verificare la sensibilità estetica del pubblico». Ora potrebbe forse sembrare estrema una conclusione del genere e cioè ridurre l’intero immaginario duchampiano a una pura applicazione di principi scientifici quasi allo scopo di trasformare l’osservatore in una cavia da laboratorio, ma La scienza dell’arte non fa altro che, seguendo le dichiarazioni dello stesso artista (grazie a scritti, conversazioni e interviste), sottolineare in primo luogo come Duchamp non sia stato affatto avulso dal contesto del tempo ma, anzi, molto attento alle sperimentazioni che avvenivano in ogni campo. Tanto è vero che uno degli obiettivi del libro è mettere in luce tutte le fonti che potrebbe aver consultato, in modo diretto o indiretto, per il concepimento e la realizzazione di tante sue opere. In secondo luogo Senaldi vuole affermare come la grandezza di Duchamp risieda non tanto nel suo essere stato un artista come tanti altri amici e colleghi dell’avanguardia, un produttore di opere visive e visibili, ma a suo modo un teorico, un filosofo, un pensatore e, infine, un vero e proprio scienziato dell’arte.

Ed ecco allora che, a suffragare la tesi di Senaldi, sono studiosi quali Hugo Münsterberg (uno dei primi e più eminenti teorici del cinema, autore del fondamentale The Photoplay), Henri Bergson (il cui Materia e memoria è più volte citato), Hermann von Helmholtz (fisico e fisiologo tedesco), Maurice Griveau (estetologo poco noto, ma bibliotecario come Duchamp, che ha scritto, tra gli altri saggi, La Sphère de la beauté). Diviene in tal modo davvero illuminante rileggere molte opere dell’artista francese, a partire dai Ready-made, alla luce della teoria e della pratica scientifica, così come lo stesso concetto di anti-retinico viene spiegato dettagliatamente e non resta circoscritto al mero rifiuto della rappresentazione mimetica. «Se anche l’astrattismo è ‘retinico’ – scrive Senaldi – ciò significa che il problema non è il realismo della pittura, in quanto contenuto, ma, più in generale, la sopravvalutazione della dimensione visiva dell’arte».
Ma scendiamo un po’ più nel dettaglio, illustrando la struttura del volume, suddiviso in tre parti: L’altro lato delle immagini, dove si parla della dipendenza tra i ready made e i dispositivi ottici e pre-cinematografici ma anche delle riproduzioni fotografiche delle opere duchiampiane; Girare, parlare, montare, in cui si affronta la questione dell’ideomotricità anche nelle sue opere motorizzate (le sculture rotative ad esempio); infine nella terza parte, Una vacanza nel Tempo, si passano in rassegna oltre ai film anche il suo incontro con il linguaggio televisivo, facendo emergere la figura di un Duchamp «regista», installatore, metteur en scène di set e immagini per presentare le sue opere sotto una luce diversa.

Il rapporto che Duchamp ha intrattenuto con il cinema (e anche con la televisione) attraversa non solo diversi decenni, dagli anni ’20 fino alla sua morte sopraggiunta nel 1968, ma è anche presente nelle tre parti del libro, pur seguendo un ordine cronologico. Anche se è conosciuto per un solo film, quell’Anemic Cinéma del 1926 in cui alterna dove dischi spiralici e dischi omofonici, in realtà Duchamp ha al suo attivo sia tentativi abortiti e progetti rimasti sulla carta (basta vedere le sue notes), sia collaborazioni con altri amici cineasti, come Maya Deren (Witche’s Cradle) e Hans Richter (gli episodi dei lungometraggi Dreams That Money can Buy, 8×8 e Dadascope, realizzati tra il 1943 e il 1961). Il primo esperimento filmico dell’artista, purtroppo andato distrutto durante il processo di sviluppo, è Elsa, Baroness von Freytag Loringhoven, shaving her pubic hair (1921), in cui la citata baronessa del titolo, amica di Duchamp, viene appunto filmata con due cineprese mentre si depila il monte di Venere.

Questo, come altri film esistenti, falliti o perduti, vengono acutamente sempre contestualizzati e messi in connessione con alcune costanti e ossessioni dell’immaginario visivo duchampiano.

E sono proprio queste dettagliatissime analisi (basti vedere la corposità delle citazioni e delle note), che rendono La scienza dell’arte un volume prezioso poiché apre nuove prospettive di ricerca sull’arte di Duchamp, senza trascurare nessun topos, simbolo, procedimento, dispositivo: dal gioco degli scacchi alla pittura su vetro, dal motivo della spirale all’elemento erotico, dal significato del gas e dell’elettricità all’uso della parola e del lettering, cercando di allontanare Duchamp da un’ottica semplicemente alchemica e riportandolo, invece, nell’alveo delle scienze del XIX e del XX secolo, per lui inesauribile fonte di creatività e anche di riflessione estetica in atto.