Nel movimento della nuova geografia dei festival, Toronto si è accaparrato ventisei titoli britannici. Nonostante questo, a Venezia, non è sfuggito il film di uno dei registi, che insieme a Steve McQueene, rappresenta la punta di diamante della New Wave britannica. Bypass, è il secondo film di Duane Hopkins, videoartista e film-maker. Figlio di operai, si presenta con gentilezza e timore, nascondendo il suo volto di giovane quarantenne dietro una folta barba.

Mi racconti la genesi di questo film? Tu sei il regista e hai anche scritto la storia, è inventata o ispirata da fatti realmente accaduti?
Ho sempre lavorato con attori presi dalla strada. Stavo preparando un film, ed ero per le strade in una delle tante città inglesi cresciute attorno a complessi industriali, che dopo aver chiuso hanno lasciato dei grandi complessi popolari nel degrado. Notai un ragazzo con un volto particolare, l’ho fermai spacciandomi per un cast director, gli chiesi se potevo incontralo per fargli un intervista. La sera stessa mi fissò un appuntamento a casa sua. Era inverno inoltrato, arrivai alla casa, non c’era il riscaldamento e le finestre erano rotte, anche lampadari non funzionavano, non c’erano mobili, c’era un una televisione poggiata su una sedia, la cucina non era in uso, ovunque c’erano scatole vuote di take way. Ho avuto la sensazione di un’esistenza semplice e temporanea. Mi presenta due suoi amici vestiti, indossavano giacche goretex, uno aveva il cappuccio e l’altro i guanti. All’inizio erano un po’ diffidenti, ma dopo circa due ore e mezza, vengo a sapere molto del loro background, della scuola che frequentavano, delle loro famiglie. Quando gli chiedo che programmi avevano per la sera, mi raccontano che alle due del mattino, avrebbero rubato una macchina, e sarebbero andati a scassinare tre case, già sapevano dove andare. Due delle case che avevano in programma di svaligiare appartenevano a degli amici, li conoscevano bene, e sapevano che erano fuori città, ed era per questo che avevano scelto di andare da loro. A quel punto ho capito che l’ambiente in cui questi ragazzi vivevano era particolare, e che avevano sviluppato una sorta di tecnica della sopravvivenza. Uno dei ragazzi, il leader, era in uno stato euforico. L’ operazione avrebbe messo alla prova la sua volontà, forse si sarebbe imbattuto in un inseguimento con la polizia, o forse l’avrebbe scampata. L’altro ragazzo aveva invece un altro atteggiamento, nella conversazione mi era sembrato il più sensibile, ed era in un certo senso in discussione con la sua morale. Era il ragazzo che mi aveva raccontato più particolari della sua famiglia. Dopo un anno continuavo a pensare a questi ragazzi e a cosa gli sarebbe potuto accadere. Pensavo a cosa era successo quella sera, forse erano stati arrestati dalla polizia, forse c’era stato un punto di svolta, o uno di loro aveva capito che moralmente era un atto complicato. Questo incontro è stato l’inizio del mio film.
Mi puoi raccontare un po’ del tuo background, dalle tue video-installazioni cosa ti ha portato al cinema?
Ho sempre nutrito un forte interesse per il cinema. Sono cresciuto all’inizio guardando molti film di Hollywood, tutti i film di Spielberg, ma negli anni ho scoperto e mi sono appassionato ad un altro tipo di cinema, i film d’archivio. A vent’anni ho scoperto il cinema europeo, un altro modo di fare cinema. La scoperta del cinema di Robert Bresson è stato per me fondamentale, guardando i suoi film mi è venuta la voglia di iniziare a creare il mio cinema. Ho capito che non volevo più essere un osservatore, ma volevo produrre il mio immaginario filmico, ho iniziato a voler contribuire alla cultura del cinema, a dare il mio contributo.
Il rapporto con la violenza nel film dei tuoi personaggi è una costante, la subiscono o la provocano. Ma sembra anche essere un fatto generazionale e del territorio.
Siamo essere umani, non abbiamo raggiunto ancora un punto dove la diplomazia è sufficiente a risolvere i problemi. Per questo si produce violenza, ad un livello ampio e organizzato o ad un livello individuale. La violenza si genera come reazione a qualcosa, si attiva per difesa o si scatena per combattere un’ingiustizia. Da poco mi sono trasferito in Scandinavia, subito ho percepito una differenza ad uscire di sera, non ho la percezione della tensione che sentivo in UK, generata da una violenza che è cresciuta di recente, che non c’era dieci anni fa.
Pensi che il tuo cinema cambierà in Scandinavia?
Ho in programma qualcosa che è diverso da quello che ho fatto fino ad ora. Per ogni film sono interessato a cambiare la forma e il contenuto. Il cinema può essere puro intrattenimento o una forma d’arte. Per me, è chiaro che il cinema è una forma d’arte, e tale deve rimanere.
Il protagonisti dei tuoi film sono degli adolescenti, un topos ricorrente del cinema britannico degli ultimi anni, in Bypass lo associ alla malattia, da dove nasce questa scelta?
È una conseguenza delle mie ricerche. I ragazzini che ho incontrato per preparare i miei film erano tutti malati in qualche modo. Spiritualmente malati, non avendo ricevuto l’affetto e le attenzioni dovute. Anche a livello fisico, erano spesso malnutriti, come conseguenza della loro dieta.
Si nutrono con ingredienti malsani anche nel film, la ragazza mangia uova scadute da quattro giorni e non se ne cura.
Sono malnutriti a più livelli e l’idea di Tim, il protagonista malato, mi è sovvenuta in fase di scrittura. Non m’interessa il realismo. La realtà è un punto di partenza, per raccontare una storia credibile. La malattia mi serviva anche per far capire che la relazione tra Tim e la sua giovane compagnia è seria, profonda, ma ad un certo punto diventa metaforica. Mi offre un modo per raccontare lo stato mentale del personaggio. Questo m’interessa sempre di più nei personaggi, come rendere l’interiorità visibile. Come mostrare al pubblico l’interiorità. Ho discusso a lungo anche con il make-up artist su come mostrare la malattia non come qualcosa di brutto, ma qualcosa in un certo senso di bello, la malattia si manifesta come una fioritura. La malattia di Tim è la manifestazione della sua morale. La malattia non è necessariamente un evento negativo, ma può avere una funzione positiva, che rafforza e cura la vita nel profondo. In qualche modo mi ha permesso di accedere ad un livello più lirico e trascendenziale. Mi ha consentito di trasmettere al pubblico un certo stato mentale.
Sei molto interessato alla relazione di padre figlio ma anche alla mascolinità?
]In qualche modo la mascolinità è il mondo legato alla violenza. Come definire la mascolinità, come descriverla, certamente con la violenza. C’è stata un’era in Europa e in UK, caratterizzata dalla fioritura delle fabbriche e dell’industria. In qualche modo, riflettevano anche la fisicità degli uomini che vi lavoravano. Ad un livello dava loro dignità, e onore, c’era un senso di comunità forte. Lavoravano insieme, condividevano la vita sociale, venivano pagati più o meno lo stesso. Non c’era l’ansia del profitto e c’era una continuità nei rapporti sociali. Mio padre è ancora amico dei ragazzini con cui andava a scuola. Quando avevi queste grandi industrie, voleva dire anche creare degli amici e far parte di una comunità, nello stesso tempo avevi un lavoro che sarebbe durato per molto tempo, potevi costituire una famiglia, con valori solidi. Avevi stabilità e sicurezza. Molti di questi aspetti sonno stati cancellati dai drastici mutamenti economici. L’assenza del padre nel film è una metafora, rappresenta la mancanza dell’industria, è la metafora della perdita di un certo tipo di identità, e di conseguenza hai qualcuno, come nel film Greg, che probabilmente si sente vicino alla figura del padre. Ma non ha accesso a nessuno degli onori che suo nonno ha avuto. Il padre è l’anello mancante. Sentiamo la presenza dei genitori, ma come entità assenti.
La crisi economica ha stimolato un altro modo di fare cinema?

Quello che continua a interessarmi nel fare cinema, deve giustificare il tempo che si spende facendo un film. Credo che sia di ricreare dai caratteri che ti gravitano intorno. Non capisci mai bene perché ti sei innamorata di tuo marito, o perché sei amica di un certo tipo di persone. Sembra naturale. C’è sempre qualcosa in un progetto che in un certo modo ho fatto e che sento vicino. C’è sempre un aspetto del mondo che mi appartiene e che voglio ricreare nel mio cinema. Mi viene in mente una frase di Fassbinder che diceva che la ragione per cui faceva film è perché voleva creare la sua casa ideale. Alcuni dei suoi film erano il pavimento, altri il soffitto, altri le pareti. E è interessante in un certo senso il modo come tu crei il tuo mondo immaginario. Per me questa è una ragione per cui vado al cinema, voglio vedere delle cose che riconosco. Ma l’artista deve andare anche in posti che non riconosce.
Come hai pensato la scena di Tim inseguito dai poliziotti?
Nell’inseguimento ho sempre voluto che la camera fosse attenta, attaccata alla spalla del protagonista. Volevo che avesse la stessa palpitazione del protagonista e del poliziotto. Quello è anche il momento in cui il personaggio s’imbatte nella polizia. Volevo da una parte catturare la natura fisica dell’azione. Volevo far capire qualcosa riguardo Greg, renderlo fisico, è qualcosa che mi piace molto nel cinema, percepire la fisicità dell’azione.
Come mai per la prima volta hai scelto attori professionisti, e come hai lavorato con il giovane cast?
È la prima volta che lavoravo con attori professionisti, e volevo che gli attori fossero a loro agio e capaci di lavorare con la loro fisicità. Inoltre dovevano essere interessati a quello che volevo raccontare. La sceneggiatura era il nostro punto di partenza, su quella abbiamo discusso molto su cosa il personaggio aveva perso, quale era la sua psicologia e a cosa ambiva. Costantemente ero alla ricerca di dettagli, come la biciletta che usa nel film, appartiene al suo passato, è piccola per lui, ma non l’abbandona, è la sua ancora. Ci attacchiamo sempre a qualche oggetto o a qualche persona, è un istinto di sopravvivenza.
Molta stampa inglese definisce il tuo cinema realismo sociale, forse è un termine tropo usato, un’etichetta che può allontanare anche pubblico, che sa già cosa va a vedere, cosa ne pensi? Certamente, lo trovo inappropriato. Non so perché scegliamo queste storie. Il realismo sociale è una cosa a cui noi in U.K. siamo molto legati. Ma abbiamo film-makers che superano questo. Uno dei registici che amo di più, nella tradizione del cinema britannico è Alan Clark, il suo lavoro era realismo sociale ma aveva anche un aspetto astratto legato alla violenza. Penso a film come Elephant che ha ispirato Gus Vant Sant, è il legame tra arte e cinema. Nel mio cinema ci sono elementi del realismo sociale, ma non so esattamente cosa vuol dire, penso anche a Bill Douglas che ha lavorato ai margini della poesia. Per me è bressonianno il mio cinema. Si è super usato il termine realismo sociale, non so perché in U.K., qualsiasi film con attori non professionisti che parte dalla realtà viene marchiato realismo sociale, ma possiamo dire anche questo del cinema di Bresson allora.
Dove hai girato il film? Non ho riconosciuto il luogo.
Sono contento quando dici che non puoi riconoscere il luogo, era nelle mie intenzioni, perché è una realtà che si può ritrovare in qualsiasi città britannica che ha subito un collasso economico dovuto alla perdita dell’industria.