Montecastrilli, Umbria, Stato Pontificio: anno 1825, in piena epoca di Restaurazione. La badessa del locale monastero di clarisse, Agnese Pallotta, viene arrestata dal Santo Uffizio (l’Inquisizione romana) insieme al suo confessore, Ambrogio Mignanti. I due sono accusati di «affettata santità» (vale a dire di simulazione di doni o eventi sovrannaturali per acquisire fama di santità), di «peccati contro il sesto comandamento» (ovvero di atti impuri, o «turpitudini», nel linguaggio dell’epoca).

La badessa è anche accusata di omicidio, per il presunto avvelenamento di tre consorelle considerate a lei ostili; padre Mignanti di «sollecitazione in confessionale», cioè abuso della posizione di confessore per ottenere prestazioni sessuali dalle penitenti. Si apre un lunghissimo processo, che si concluderà dieci anni dopo con la condanna degli imputati, e che nel frattempo coinvolge, con ulteriori accuse o testimonianze, molte altre monache e una lunga sequela di precedenti confessori che avevano operato nel convento di clausura.

NE EMERGE una storia cupa e sordida, che sembrerebbe richiamare una commedia boccaccesca – se non fosse che si tratta invece di un dramma di potere e violenza, che sconvolge l’esistenza degli uomini ma soprattutto delle donne coinvolte. Eleonora Rai nel suo Peccato criminale. Processo a una donna e ai suoi demoni. Roma, 1825 (Einaudi, pp. 424, euro 26) ricostruisce i fili intricati e incerti della vicenda in un libro appassionato, privilegiando un registro narrativo che dialoga esplicitamente con i modelli del noir e fa un uso molto ampio – non così comune nei saggi storici – della prima persona. L’autrice non si limita infatti a presentare oggettivamente le fonti, ma ci parla delle proprie reazioni alle fonti stesse, incluse le impressioni, le emozioni, le libere associazioni che la assediano – persino i piccoli gesti come il ticchettare delle dita sui vecchi tavoli dell’Archivio del dicastero per la dottrina della fede (l’attuale denominazione del Santo Uffizio).

Autorialità postmoderna? Forse, più semplicemente, l’unico modo possibile per trovare un filo in una narrazione ostica, in cui l’oggettività o la «verità» sembrano continuamente sfuggire, visto che i testimoni cambiano spesso le loro versioni, e non si è mai sicuri se quanto raccontano sono fatti o fantasie, esperienze vissute o topoi di un diffuso immaginario.

LA RICOSTRUZIONE del processo avviene attorno alla enigmatica figura di Agnese, la Badessa, che racchiude in sé tutti gli aspetti della vicenda: prende i voti per costrizione più che per vocazione, ma fin da giovane ha (o riferisce) intense esperienze mistiche, apparizioni, dialoghi con Cristo, crocifissioni estatiche, premonizioni, produzione di «latte di vergine» e molto altro: eventi che creano attorno a sé un’aura di santità legittimata da alcuni confessori, in specie da Giovanni da Capistrano che ne scrive una Vita ricalcata su modelli agiografici (opera che gli costerà a sua volta la condanna). Agnese è quasi certamente vittima di abusi sessuali, e i rapporti con i confessori (prima e dopo la clausura) sono densi di imposizioni penitenziali ambiguamente sessualizzate.

AL TEMPO STESSO, quando prende il controllo del monastero, riproduce un atteggiamento di dominio violento e di abuso nei confronti delle altre monache – fino, secondo testimonianze convergenti, a ricorrere all’avvelenamento. Prima vittima poi carnefice, dunque; e poi ancora vittima di un sapere-potere tutto maschile, che nel processo la assimila fin dall’inizio agli stereotipi della donna falsa e mentitrice, sopraffatta dal desiderio e immersa nelle proprie fantasie – quel tipo che di lì a poco si sarebbe chiamato «isterico». Rai propone almeno due diversi livelli di lettura. Prima di tutto, colloca la vicenda di Montecastrilli in una storia di lunga durata della Controriforma e dei suoi tentativi di disciplinare il clero, oltre che l’intera società cattolica. Esigenza disciplinare che si fa sentire proprio in quei primi decenni dell’Ottocento, con alle spalle la «barbarie» napoleonica e nel futuro l’incubo della distruzione dell’antico regime e della sua intera visione del mondo. Le incontrollate esplosioni di misticismo femminile, più tollerate in passato, sarebbero apparse fra i fenomeni più pericolosi da controllare – quasi fatte apposta per nutrire la propaganda liberale.

SE CIÒ SPIEGA la virulenza dei tribunali, non dà però conto del contesto sociologico e culturale nel quale quei fenomeni maturano. La comparazione con casi analoghi cui l’autrice accenna, sia ottocenteschi che di secoli precedenti, rimanda a un’antropologia dei microuniversi dei conventi di clausura, che riproducono ruoli e modelli di soggettività catturati in vortici di sofferenza e mortificazione, misticismo, violenza e potere sessualizzati.

Ma l’autrice propone anche una seconda chiave di lettura. Come i lettori, è sbigottita dall’enormità di quanto emerge dalle fonti, e vi coglie qualcosa che va al di là dello specifico contesto storico: una «questione senza tempo», la chiama. Si tratta di ciò che oggi chiamiamo «abuso», un rapporto di sopraffazione e sfruttamento radicato in una radicale sperequazione di potere e che investe sistematicamente la dimensione sessuale (come ben dimostra la sociologia di altre istituzioni totali).

Apparirebbe qui dunque una dimensione universale della violenza, che per così dire non dipende dalla psicologia o dalla morale dei soggetti ma plasma quella psicologia e quella morale. Ipotesi senz’altro plausibile, che lascia però aperto il problema di comprendere quel nesso fra estasi o sofferenza mistica, corpo femminile e sessualità negata che emerge a Montecastrilli alle soglie dell’età contemporanea.