Draghi accelera. La situazione in Afghanistan degenera troppo rapidamente per perdere tempo e nessuno, nei palazzi della diplomazia italiana, se la sentirebbe di scommettere su come evolverà. Ieri mattina il premier ha incontrato a palazzo Chigi il ministro degli Esteri russo Lavrov, che subito dopo ha visto anche Di Maio, poi ha parlato al telefono con il primo ministro indiano Narendra Modi. Nei prossimi giorni è in programma il colloquio con la Cina. Si tratta di definire quale istituzione internazionale cercherà di gestire la crisi afghana: sia il russo che l’indiano concordano sul fatto che debba essere il G20 perché, come sottolinea Lavrov «a differenza del G7 è una piattaforma che riflette la realtà multipolare del mondo». Gli obiettivi sono tanto chiari a parole quanto ancora nebulosi nella possibilità di implementazione reale. Per tutti la cosa più importante è evitare che l’Afghanistan diventi una base del terrorismo internazionale, tanto più dopo la mattanza all’aeroporto di Kabul. Ma è un terreno scivoloso perché il quadro è fluido e potrebbe obbligare a un dialogo più stretto del previsto con i talebani nemici di Daesh.

Il rispetto dei diritti umani è la chimera che tutti nominano e inseguono pur sapendo che su quel fronte il massimo che un eventuale fronte comune di tutto il G20 potrà ottenere sarà mitigare un po’ il rigore della presa dei talebani sul Paese. Più concreta la possibilità di arrivare a un accordo per l’evacuazione di tutti i collaboratori della missione occidentale che non riusciranno a lasciare il Paese subito, anche se se ne comincerà a parlare davvero solo quando l’evacuazione in corso sarà terminata. Gli strumenti di pressione sono gli aiuti internazionali e lo sblocco dei fondi afghani all’estero. Ma è evidente che nessun corridoio umanitario sarà possibile senza un accordo, non solo dei Paesi del G20 ma anche con Iran e Pakistan, che andrebbe definito entro il 20 settembre, quando si riunirà l’assemblea straordinaria dell’Onu.

C’è in sospeso un problema in più per quanto riguarda i corridoi: il decidere dove porteranno. L’Europa, per ora, evita di affrontare un nodo che sa per amara esperienza essere delicatissimo. Inutile parlarne ora, senza aver neppure completato la prima e difficilissima evacuazione e con l’accordo internazionale ancora nella fase dei buoni propositi. Tutti sono ormai certi che ci si arriverà e che anche Cina e Turchia, dopo Russia e India, saranno della partita. Ma la buona volontà non basta ed è proprio Lavrov, in conferenza stampa con Di Maio, a chiarirlo: «I partner internazionali ci invitano a unire gli sforzi sull’Afghanistan ma i politici dovrebbero imparare dal passato e fissarsi in mente che le soluzioni congiunte non sono mai semplici. La cosa più importante per noi ora è la sicurezza dei nostri confini». All’intesa internazionale quasi certamente si arriverà. Draghi si è impegnato forse più di ogni altro leader e non tornerà indietro. Ma andrà contrattato punto per punto. Non sarà facile né indolore.

L’Afghanistan non è la sola crisi internazionale sul tavolo del G20. Ieri si è aperta, con gli interventi di Angela Merkel e di Mario Draghi, la conferenza sull’Africa e oggi parlare di Africa significa parlare di vaccini, anzi di vaccini mancanti. Le cifre, raggelanti, le snocciola lo stesso premier italiano: «Nei Paesi ad alto reddito quasi il 60% della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccini, in quello a basso reddito solo l’1,4%». Draghi promette l’invio di 400 milioni di fiale da parte dell’Avatt ma le promesse dell’occidente, sinora, sono rimaste sulla carta.