Volete voi la «stabilità», la «continuità» o qualsiasi altro sinonimo per dire prolungamento della legislatura? Mario Draghi, un «nonno al servizio delle istituzioni», ha un suggerimento per le «forze politiche»: eleggerlo al Quirinale. Al primo scrutinio. La auto candidatura non è (ovviamente) dichiarata, ma non poteva essere più chiara di così. La conferenza stampa di fine anno – non a caso anticipata – non riesce ad allontanarsi dal Quirinale. Tema sul quale, prega subito il presidente del Consiglio, non vorrebbe insistere. Ma che non evita.

Parte spiegando che il suo governo ha centrato tutti i 51 obiettivi del Pnrr fissati per il 2021. Quasi tutte le riforme sono contenute in realtà in deleghe che il parlamento ha affidato al governo, andranno dunque scritte nel 2022. Poco importa, a Draghi interessa trasmettere il senso di una missione compiuta. Quando glielo si fa notare reagisce: «Questo lo dice lei». Ma poi è lui stesso a spiegare che dal suo punto di vista l’obiettivo è raggiunto: «Abbiamo creato le condizioni perché il lavoro sul Pnrr continui, indipendentemente da chi ci sarà. L’importante è che il governo sia sostenuto da una maggioranza come quella che lo sostiene oggi, la più ampia possibile».

Non a caso negli ultimi mesi il presidente del Consiglio non aveva mai allontanato da sé la prospettiva di ascendere al Colle. Adesso la prima mossa importante nella partita del Quirinale la fa lui. E il messaggio, al fondo, è tutt’altro che un annuncio di stabilità. Anzi, così come oggi, chiarisce Dragi, lo schema non può continuare. «Chiedo io alle forze politiche: sarebbe possibile per l’attuale ampia maggioranza dividersi sull’elezione del presidente e poi tornare magicamente a ricomporsi?». Risposta scontata: non sarebbe possibile. Dunque, ora che lui è in campo, non basteranno le attestazioni interessate di stima di chi vuole tenerlo a palazzo Chigi a garantire la legislatura. A proposito, Draghi non perde occasione di ripetere che la legislatura deve continuare «fino alla scadenza naturale». Non è irrilevante per i parlamentari, visto che lo dice chi, in caso di elezione al Quirinale, avrebbe il potere di sciogliere il parlamento.

«Il governo ha fatto tutto o comunque molto di quello che era stato chiamato a fare»; «se lo spread sale anche con me a palazzo Chigi vuol dire che non sono uno scudo, il problema non c’è»; «la responsabilità della scelta è interamente nelle mani delle forze politiche che hanno consentito l’azione di governo, non è nella mani degli individui». Sono tutte conferme delle intenzioni e ambizioni del capo del governo, difficili da nascondere dietro la clausola di stile «il mio destino personale non conta nulla». Nei suoi desideri, dopo averlo eletto al Colle nelle prime votazioni, la maggioranza dovrebbe compattarsi o addirittura allargarsi a tutto il parlamento per sostenere il suo erede a palazzo Chigi. O la sua erede, visto che la maggiore indiziata è la ministra Cartabia. Questo secondo tempo è particolarmente difficile da immaginare, ma Draghi sta dicendo che il suo piano non ha alternative migliori. A meno di non correre verso le urne anticipate: «Se le forze politiche sono in grado di trovare un altro primo ministro oltre me? Lo chieda a loro».

Nelle due ore di risposte, tutte rapide, affiora anche un’indicazione sul tipo di capo dello Stato che Draghi si candida a essere: «L’esempio di Mattarella è la migliore guida all’interpretazione del ruolo. Ha garantito l’unità nazionale e nel momento di maggiore difficoltà ha saputo scegliere con saggezza». Non per niente ha scelto lui, l’ex presidente della Bce. Si rende però conto di dover dare qualche rassicurazione sul fatto che una volta al Quirinale non sarà un commissario di governo: «Il nostro è un governo parlamentare, il presidente della Repubblica è un garante, l’esempio è Mattarella». Può bastare a tranquillizzare su un passaggio di ruolo che non ha precedenti nella storia della Repubblica? Naturalmente non può. Le previsioni novembrine di Giorgetti sul «semi presidenzialismo di fatto» restano le più schiette, le più concrete e le più preoccupanti. La prova dell’anomalia del trasloco da palazzo a palazzo, una specie di sigillo sulla lunga crisi della democrazia parlamentare italiana, sono le contorsioni alle quali si vedono costretti gli studiosi di Costituzione e procedure. Se lo spettacolo di un Draghi che dal Quirinale sceglie e incarica il suo (la sua) erede scegliendolo nel suo ex governo sembra davvero troppo hard, l’unica alternativa è immaginarlo eletto al Colle ma Cincinnato a Città della Pieve che attende che sia il presidente della Repubblica uscente a gestire la crisi. Due papi, in pratica.

Non sono dettagli. Il «piano Draghi», da ieri chiarissimo, dovrà attraversare questi passaggi stretti. È un piano forte della debolezza dei partiti, ma allo stesso tempo rischia proprio per la imprevedibile impotenza delle forze politiche. Non a caso gli unici davvero convinti di volere Draghi al Colle sono quelli che non credono alle sue promesse di stabilità e puntano proprio alle elezioni anticipate. Meloni e Letta.