Tre lunghi incontri, il terzo viene presentato come un gesto di cortesia ed è certamente fuori dalla prassi. Ma più che di cortesia è il primo segnale di quanto Mario Draghi sappia impegnare la sua biografia di «tecnico» in modo assai politico. Dopo i colloqui di rito per ogni presidente che accetta l’incarico di formare il governo – in questo caso con riserva – con i presidenti di camera e senato, l’ex presidente della Bce appena sceso dal Colle ha fatto rotta su palazzo Chigi.

Nel suo studio c’è ancora Giuseppe Conte e ci resterà fino a quando Draghi eventualmente scioglierà la riserva, giurerà nella mani del capo dello stato e poi andrà a ricevere dal suo predecessore la campanella. È quello il momento in cui sarebbe dovuto entrare per la prima volta a palazzo Chigi, ma ieri Draghi ha varcato in anticipo il portone, fermandosi a colloquio con Conte per oltre un’ora. Colloquio riservatissimo, a quattro occhi, cosa si siano veramente detti lo sanno solo loro. Ma tra i partiti che trattengono il fiato sull’esito di questo tentativo è circolata la voce che Draghi abbia offerto a Conte di far parte del suo governo «dei migliori». Un’eventualità che da sola farebbe saltare il principale ostacolo sul cammino di Draghi, visto che la resistenza anti Mario dei 5 Stelle fa perno su un improponibile ritorno allo schema del Conte tre. Lo staff di Conte ha smentito queste voci, assicurando che non si è parlato affatto di incarichi di governo per il premier uscente. Ma tra i partiti dell’alleanza è diffusa la sensazione che l’avvocato del popolo non abbia ancora deciso se mettersi alla guida dell’ala oltranzista dei 5S e cannoneggiare Draghi o, come sarebbe più nelle sue corde, virare su accenti di ragionevole e moderata collaborazione.

Nell’attesa resta un certo grado di incertezza sull’«impegno» che con «speranza» e «consapevolezza» Draghi ha accettato con riserva da Mattarella, «fiducioso che dal confronto con i partiti e i gruppi parlamentari e dal dialogo con le forze sociali emerga unità». Dalle prese di posizione ufficiali dei partiti questo tentativo – che più autorevole non potrebbe essere, visto l’investimento che ci ha fatto il presidente della Repubblica – non ha ancora la strada spianata. Cioè i numeri in parlamento. Perché mettendo insieme i partiti che certamente lo appoggerebbero (Pd, Forza Italia, Leu o parte di Leu, i nuovi europeisti e la parte che si può coinvolgere dei gruppi misti) non si raggiungerebbe la maggioranza assoluta né alla camere né al senato. Perché il governo Draghi possa partire servirebbe allora che si verificasse una di queste due condizioni in più: l’astensione della Lega (e nel caso anche di Fratelli d’Italia) o (ma anche e) l’appoggio di almeno un terzo dei gruppi 5 Stelle destinati prevedibilmente a spaccarsi. Nel primo caso, però, questo il governo partirebbe in modo molto debole, sarebbe un governo delle astensioni costretto ad affidarsi alla benevolenza di Salvini e Meloni. Difficile che Draghi possa accettare di guidarlo, così com’è difficile che possa accettare la condizione che sia un governo con la data di scadenza (giugno o settembre) visto che si tratterebbe di una pretesa fuori dalla Costituzione (Salvini e Meloni però lo stanno chiedendo).

L’investimento che il Quirinale ha fatto su questo eventuale governo è altissimo, il presidente ha persino evitato un rapido giro di consultazioni prima di comunicare la sua scelta. Malgrado le difficoltà è dunque difficile prevedere un fallimento perché avrebbe conseguenze diffuse. Sarà per questo un governo certamente «del presidente». Ma non un governo tecnico, come sopratutto i 5 Stelle non vogliono (e il veto di Di Maio si limita a questo aspetto). Sarà, se sarà, un governo politico non solo per l’ovvia considerazione che avrà una base politica in parlamento ma perché sarà composto da diversi esponenti politici, come lo era quello Ciampi al quale viene abbastanza correttamente paragonato.

Per formarlo Draghi comincerà oggi pomeriggio le sue consultazioni alla camera dei deputati. Il calendario non è stato diffuso fino a ieri sera tardi, altro segno della difficoltà ma anche della cura con cui l’ex presidente della Bce si sta dedicando all’opera. Dovrebbe incontrare anche – ed è un altra novità, escluso il precedente di Bersani che nel 2013 tenne le consultazioni inutilmente aperte il più possibile – anche le parti sociali. Poi scioglierà la riserva. Mattarella lo aspetta.