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Dovere di cronaca o censura? Il video dell’Is divide siti e quotidiani

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Media Dibattito avviato su regole e necessari accorgimenti nel maneggiare il materiale proveniente dal gruppo islamico

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 21 agosto 2014

Gli effetti mediatici della guerra asimmetrica sono tornati davanti ai nostri occhi, almeno quelli di chi ha voluto vedere, o solo scorgere un frammento del video diffuso dall’Is, nel quale si mostra l’uccisione del giornalista americano James Foley. Nella notte italiana, quando si è diffusa la notizia, sui social network è subito partito un ragionamento collettivo, caotico e talvolta ingolfato, ma ricco di spunti, sulla necessità o meno di mostrare le immagini di una decapitazione. È propaganda dell’Is? Funziona davvero, crea l’effetto contrario e quindi si deve pubblicare? O mostra un lato terribile di una guerra, dando in pasto immagini crude come potrebbero essere quelle che – se mostrate – renderebbero evidente la durezza e la crudeltà anche dei bombardamenti? E ancora, come dare la notizia?

L’impatto emotivo delle immagini crea un immediato ragionamento nell’animo di chi deve decidere cosa mostrare e come farlo. Secondo Giuseppe Smorto, responsabile di Repubblica.it, «Non ci sono dubbi, quel video non va pubblicato. Non aggiunge nulla, rischiamo di diventare megafono dell’Is. Non riesco a non provare dolore personale per queste storie, specie quando a morire sono i reporter, come Foley o Camilli, gente che abbiamo incontrato, con cui abbiamo lavorato».

La pensa così anche Marco Bardazzi, de La Stampa: «Abbiamo pubblicato solo il fotogramma iniziale. Come accade nella vita reale, quando viene posto un velo bianco sui cadaveri, anche nel digitale dovremmo usare lo stesso rispetto per i morti. Non credo ci sia una regola, ma in generale non penso che fare giornalismo significhi mostrare tutto, specie se lede una forma di discrezione e di rispetto».

Il Corriere, invece, subito dopo il diffondersi delle immagini ha usato un frame del video, lanciandolo su Twitter; nella foto si vede il militare dell’Is in procinto di tagliare la gola al reporter americano. Un’immagine che – poco dopo l’invio – è stata tolta, a dimostrare la complessità di gestione di un certo tipo di materiale «giornalistico». Mara Gergolet, vice caporedattrice degli esteri al Corriere, specifica che «in redazione è parsa subito una notizia molto importante, specie per le sue implicazioni internazionali, a cui abbiamo deciso di dare spazio. Si è stabilito di non mettere il video, ma solo le immagini, cercando di contestualizzare con il testo la loro durezza, spiegandole e sottolineandole la rilevanza.Si è deciso di mostrare le foto per testimoniare che queste cose purtroppo accadono, lo abbiamo fatto anche in altre circostanze».

È complicata la gestione e la decodifica di immagini di questa crudeltà. Mostrarle significa dare idea del baratro in cui il mondo sembra essere precipitato, o è piuttosto un modo per fare scattare una sempre più facile e scontata indignazione? Verso chi, per altro? Di certo verso l’Is, ma anche – perché no – verso le circostanze (Iraq, Siria, ce ne sono molte) che hanno spinto l’Is a uccidere in quel modo. Alle armi e alla tecnologia delle grandi potenze, che ormai bombardano a distanza, senza neanche umani a guidare aerei o artiglierie ma utilizzando i droni, con vittime che rimangono disperse nelle macerie e che spesso neanche vengono mostrate, come a specificare che la guerra non ci riguarda, i soldati dell’Is reagiscono nella forma più primitiva, rozza e banale, spedendoci in faccia con un abile ufficio stampa «social» la forma più semplice e cruda di morte. Uno sgozzamento, nel mezzo di un deserto che sembra un set cinematografico, con pose e mimiche da teatro tragico.

Proprio mentre intendono dire il contrario: che non è arte, rappresentazione, bensì la «realtà», la conseguenza di una guerra sempre più ampia.

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