Qualunque sia la definizione che si voglia darne, la mistica è un’esperienza che va oltre il limite, che si confronta con il nulla e con l’assoluto. Può apparire come una follia e uno scandalo. Un’opera di grande respiro – sono previsti tre volumi – ideata da Francesco Zambon, eccellente studioso del catarismo, della mistica medievale, di Simone Weil, ci introduce in questo vasto mare di visioni, di profezie, di tenebre e di splendori. Dopo un primo volume dedicato alla mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale, esce ora un secondo volume di testi moderni: La mistica cristiana («i Meridiani. Classici dello spirito», Mondadori, pp. XIII-1672, € 80,00).
La pima sezione, Mistica tedesca e brabantina, a cura di Victoria Cirlot e Amador Vega, si apre con pagine di Ildegarda di Bingen (1098-1179), autrice di grandi opere visionarie, in latino – le sue visioni, precisa, non sono estasi, ma accadono in un lucidissimo stato di veglia – e anche appassionata e acuta studiosa di erbe, pietre, sfere celesti. Segue Hadewijch di Anversa (prima metà del tredicesimo secolo), che scrive, nell’olandese medio parlato nel Brabante, incantevoli poesie – per le poesie si dà anche il testo originale – dove l’incontro con l’Amore divino si intreccia con motivi della lirica trobadorica, e dove Ragione, che vorrebbe dominare Amore, esce clamorosamente sconfitta: «Allora Ragione mi si fece soggetta / e io mi levai su di lei, / e venne Amore / e mi abbracciò, / e io uscii di spirito / e giacqui annegata sino a giorno alto in indicibili prodigi».
Più violenta e tragica è la scrittura di Matilde di Magdeburgo (1207 ca.-1294 ca.), immersa, come Matilde di Hackenborn e Gertrude la Grande, nella temperie mistica del famoso monastero di Helfta, nel ducato di Sassonia: il suo Das fliessende Licht der Gottheit (La luce fluente della divinità) è un dialogo appassionato dell’anima amante con Dio, una voce ora fremente e luminosa, ora dolente e annichilita.

Il Pellegrino Cherubico di Silesius
Il culmine della mistica tedesca è Meister Eckhart (1260 ca.-1328). Nelle prediche, scritte in medioaltotedesco, egli insegna audacemente il distacco dell’uomo da sé, dall’oceano delle cose e delle immagini superflue. Solo così l’uomo discende nel «fondo» (grunt) dell’anima, raggiungendo la semplicità e la «nobiltà» che gli derivano da Dio, anzi diventa lui stesso Dio. La mistica barocca è rappresentata da Jacob Böhme, il visionario dell’«Aurora nascente», di potenti profezie evocate con immagini offerte sia dalla realtà terrena che dalla contemplazione delle stelle, e da Johannes Scheffler, più noto con lo pseudonimo di Angelus Silesius. Il capolavoro di Silesius è il Cherubinischer Wandersmann (Il Pellegrino Cherubico, 1675), che svolge la conversazione interiore attraverso calibrati epigrammi, ricorrendo anche alle cose più piccole, al fiore, alla rosa: «Riceve Dio il tuo cuore con tutto il suo valore / quando verso di lui come una rosa s’apre». Il Romanticismo ci sgomenta con i misteriosi e apocalittici Inni alla notte di Novalis.
La sezione della Mistica francese, a cura di Benedetta Papasogli, si apre con Marguerite Porete, bruciata sul rogo nel 1310. Vicina al movimento del Libero Spirito, nel Miroir des simples ames rifiuta ogni mediazione ecclesiastica: memoria, intelletto e volontà sono tutti inabissati in Dio, attraverso l’Anima, che è «la sorgente del Divino Amore, dalla quale nasce la fontana della conoscenza divina». Nella storia religiosa del Grand Siècle, attraversata dalla animosa controversia teologica sulla grazia, dove rifulge il genio di Pascal, incontriamo grandi figure come Pierre de Bérulle, che intraprende la via austera e regale della teologia dell’Incarnazione – l’universo intero non è che l’altare dell’Uomo-Dio – e come Jean-Joseph Surin, il mistico dell’eccesso e della possessione diabolica. Una via radicalmente alternativa, lontana dall’annichilimento e dall’indicibile, è quella della psicologizzazione dello spazio interiore dell’anima. François de Sales mette in primo piano le relazioni interpersonali, proponendo, in contrasto con il silenzio della contemplazione, una «conversazione interiore». Il «quietismo» di Jean-Marie Guyon, di Fénelon, che si ispira allo spagnolo Molinos, è fondato sull’oblio totale di sé: l’anima non deve agire, ma deve essere solo un docile strumento nelle mani di Dio. Il panorama si chiude con «l’ombra e la grazia» di Simone Weil.
La terza sezione, La mistica italiana dalla fine del Quattrocento al Novecento, è a cura di Michela Catto e Guido Mongini. La cultura intransigente e repressiva della Controriforma scredita e soffoca ogni espressione religiosa personale che tenda a svincolarsi dal controllo ecclesiastico, ma, nascosti nell’ombra dei chiostri, nascono straordinari testi visionari.

Lande desolate, contrade amene
Battista da Crema propone un’ascesi spietata, fatta di macerazioni personali e di umiliazioni morali, allo scopo di condurre, attraverso l’annichilamento di ogni volontà, all’unione divina. Maria Maddalena de’ Pazzi ci offre nelle sue pagine, in «astrazione di mente», uno straordinario diario spirituale, dove l’anima percorre ora lande desolate, ora contrade amenissime. L’esperienza estatica di Veronica Giuliani è una sorta di «estasi lucida – così i curatori – che non sottrae il soggetto alla sua stessa coscienza ma anzi alimenta in lui la consapevolezza continua dell’unione con la divinità come realtà quotidiana». Una sorta di crisi e di tramonto della mistica si può scorgere nella regolata devozione di Alfonso Maria de’ Liguori, dove i modelli contemplativi si trasformano in più praticabili esercizi di devozione. Ma, dopo il cattolicesimo cupo e conservatore dell’Ottocento e le sue censure, si può intravedere «una rinascita inavvertita della mistica».
Nella straordinaria varietà di queste esperienze mistiche, così diverse tra loro nelle movenze, nel carattere, nello stile, è interessante notare come alcuni temi ritornino costantemente. Un grande archetipo è la speculazione di Meister Eckhart, con i temi del «fondo» (grunt) e dell’«abbandono» (gelâzenheit). Il «fondo», che è insieme, vertiginosamente, abisso e fondamento, che è il luogo più nascosto e più vero dell’anima, ritorna in Surin: «La dove la mente si perde / ove più si scorge l’abisso, / dove più infuria l’Oceano, / è là che ad occhi chiusi / il mio cuore si getta / col soccorso dei cieli». E, in una drammatica alternanza di oscurità e di luce, in Madame de Guyon: «Notte che splendi più del giorno, / la tua luce diviene eterna. // Ma che dico, la luce, tutto mi sembra oscuro: / è un abisso impenetrabile; / eppure il mio cuore è sicuro / che la sua luce è veritiera».
«Abbandono». Il tema ritorna, intensamente, in Rilke, in Heidegger, lettori fedeli anche di Silesius e dei suoi epigrammi: «Tutto al saggio è indifferente! Se ne sta sereno e in pace: / se per il suo non vanno, le cose vanno per il verso di Dio». «La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce, / a se stessa non bada, che tu la guardi non chiede». Lettori inquieti di Eckart, che scrive in una sua splendida poesia, Il grano di senape: «Diventa come un bambino, / diventa sordo, diventa cieco! / Il tuo stesso io / deve essere annichilito (mûz werden nicht), / il tutto e il nulla caccia via! / Abbandona il luogo, abbandona il tempo, / evita anche le immagini! / Procedi senza strada (genk âne wek) / lungo il sentiero angusto (den smalen stek), / così troverai la traccia del deserto».