Ad un anno dallo scoppio del conflitto in Ucraina l’Unione Europa intensifica pericolosamente il suo coinvolgimento nella guerra: prima le sanzioni, poi l’invio di armi difensive, ora la fornitura di armi offensive, in un’escalation che, secondo fonti dell’agenzia Bloombeerg, dovrebbe presto portare i ministri della Difesa dei Paesi membri della Nato «a definire le condizioni di un potenziale coinvolgimento simultaneo in un conflitto ad alta intensità».

Entro il 2030 negli otto paesi europei, che sono tra i primi produttori di armi del mondo e membri della Nato, l’investimento in armi aumenterà di un ulteriore 2% del Pil. Secondo i dati del Sipri le aziende europee sono in vetta alle classifiche, subito sotto i primi cinque colossi statunitensi, con buona pace dei grandi speculatori finanziari che ingrassano grazie a questa corsa alla spesa militare mondiale.

Le popolazioni europee stanno pagando i costi economici e sociali di questa politica di subordinazione dell’Unione europea agli Stati uniti, determinati a fare dell’Europa un esclusivo partner energetico-tecnologico-commerciale. Tale obiettivo, che implica la rottura delle relazioni russo-europea e sino-europea, ha già provocato una lievitazione dei costi di produzione, dei prezzi dei beni di prima necessità e delle materie prime.

Ad aggravare questo quadro ha contribuito la Bce con la stretta sui tassi, che incideranno pesantemente sulle famiglie meno abbienti costrette a far ricorso all’indebitamento privato (salito in Italia del 2,6%) ed a pagare tassi di interesse più alti, nonché mutui, anche quadruplicati.

Ma ancora non basta: entro l’anno 2023, com’è noto, dovrà essere varato un nuovo «Patto di stabilità e crescita», sospeso per l’emergenza covid, per evitare che torni operativo quello precedente, i cui parametri troppo stringenti, sono stati frequentemente disattesi.

Un grande squillo di trombe ha accolto gli Orientamenti per la riforma del quadro della governance economica europea, contenenti le linee guida, inviato agli stati dalla Commissione europea: ogni paese membro potrà proporre un proprio piano di aggiustamento, sulla base delle sue priorità, lo concorderà singolarmente con la Commissione europea, il percorso di rientro potrà essere più lungo (dai 4 ai 7 anni).

A ben vedere però «la condizionalità macro-economica per i fondi strutturali e per lo strumento per la ripresa e la resilienza resterà invariata». Non ci sarà insomma una modifica dei Trattati. Resteranno le soglie del 3% per il deficit, del 60% per il debito, seppur trattabili sulla base di un nuovo indicatore: la spesa netta primaria, vale a dire, quella che non comprende le spese per gli interessi sul debito.

Insomma, i percorsi di aggiustamento fiscale dovrebbero fondarsi su piani, presentati dai singoli stati, che si impegnano a contenere la crescita della spesa pubblica. I percorsi di sorveglianza dei conti pubblici saranno esercitati dalla Commissione europea annualmente e saranno tutti incentrati sulle variazioni di questa spesa.

Il paradosso è rappresentato dal fatto che i vari Pnrr, derivanti dalle risorse europee, bloccano sino al 2026 e oltre ogni variazione non consentita. Dunque, quali residuali margini di trattativa avrebbero i singoli stati?

Le risorse del Pnrr peraltro dovrebbero mettere gli stati in grado di rispettare proprio le clausole del Patto di stabilità e crescita, in un quadro di stringente sistema di condizionalità, favorito dalla maggior facilità con cui la Commissione europea potrà esercitare il suo controllo sulla spesa pubblica di ogni singolo paese in forma più semplificata e diretta.

Le sanzioni finanziarie resteranno come una spada di Damocle sulla testa dei paesi membri, e costituiranno un grave deterrente ad ogni possibile politica pubblica e sociale, che voglia garantire i diritti fondamentali.