Nella Glasgow degli anni Ottanta, devastata, come il resto del paese, dalle dissennate politiche sociali di Margaret Thatcher, si svolge la Storia di Shuggie Bain (ottima traduzione di Carlo Prosperi, Mondadori, pp. 528, € 21,00), vincitore del Booker Prize 2020 e primo romanzo di Douglas Stuart, nato e cresciuto a Glasgow, poi trasferitosi a New York, dove la sua carriera letteraria ha preso il via con alcuni racconti pubblicati sul New Yorker. Di evidente matrice autobiografica, a giudicare dalle note di ringraziamento che lo stesso autore ha inserito nel libro, la vicenda vede in scena il piccolo Hugh, detto Shuggie, e la madre Agnes, forse il personaggio femminile più potente che la narrativa di lingua inglese ci abbia saputo regalare negli ultimi tempi.

Il romanzo – che si apre nel 1992, quando Shuggie ha poco più di sedici anni, lavora in un supermercato e occupa una stanza in uno squallido appartamento – ci porta quasi subito, a ritroso, nel 1981 a Sighthill, quartiere popolare di Glasgow dove il piccolo Shuggie vive insieme a Agnes, già minata dall’alcolismo, al padre Shug, tassista e dongiovanni, ai fratellastri Catherine e Leek e ai nonni materni. Oltre alle storiche e mai sopite rivalità tra cattolici e protestanti – che si riproducono nell’odio tra i tifosi di Celtic e Rangers, le due squadre di calcio più forti di tutta la Scozia – la città è attraversata dai primi, nefasti effetti del thatcherismo, raccontati con feroce esattezza attraverso lo sguardo di Shug, che percorre la città di notte a bordo del suo taxi: «La città stava cambiando; lo si notava sulle facce della gente. Glasgow si stava scoraggiando e lui lo vedeva con chiarezza da dietro il vetro del suo taxi. Lo percepiva nei passeggeri che caricava. Li sentiva dire che la Thatcher non sapeva più che farsene di onesti lavoratori; che per lei il futuro era nella tecnologia, nel nucleare, nella sanità privata. I tempi dell’industria manifatturiera erano finiti, e le ossa dei cantieri navali e degli stabilimenti ferroviari giacevano disseminate per la città come scheletri di dinosauri putrefatti.»

Miseria del dopo Thatcher
Gli effetti del thatcherismo divengono ancora più evidenti quando la famiglia di Shuggie abbandona la casa dei nonni per trasferirsi a Pithead, un sobborgo fatiscente che, dopo la chiusura della miniera dalla quale dipendevano quasi tutti i suoi abitanti, si è trasformato nel ricettacolo di famiglie che vivono di sussidi, devastato dalla violenza, dall’alcol, dal bullismo. Proprio a Pithead si svolge la parte più corposa del romanzo: il paesaggio che appare agli occhi di Shug, Agnes e i loro figli al momento del trasloco è il correlativo oggettivo delle anime perdute e della disperazione che entra nelle case tutte uguali, un paesaggio urbano descritto da Stuart con sensibilità quasi pittorica. «Oltrepassato un boschetto di tassi rinsecchiti, da entrambi i lati si aprì un vasto tratto paludoso, disseminato di piccole collinette marroni e ciuffi di ginestre ed erbacce che ne spezzavano il vuoto sconfinato. Sporchi ruscelletti color rame serpeggiavano attraverso la campagna ed erbacce marroni spuntavano da sotto le staccionate su entrambi i lati, come se volessero rimpossessarsi di quella specie di mulattiera, la Pit Road…Le tracce che il taxi vi lasciava sembravano il negativo fotografico di una pista innevata.»

Neanche il tempo di completare il trasloco, e Shug abbandonerà la famiglia per un’altra donna, lasciando Agnes ad arrabattarsi tra l’alcol, i tre figli e una comunità di donne che la guardano con ostilità e temono la sua bellezza. Quanto al piccolo Shuggie, dovrà fare i conti con la crudeltà dei compagni di scuola, che trovano inaccettabile la presenza di un bambino orientato fin da piccolo a giocare con le bambole, che non ama il calcio e cammina in modo strano. Col tempo i fratelli maggiori, Catherine e Leek, lasceranno la casa di Pith Road, e Shuggie rimarrà l’unico a occuparsi della madre, a sopportare i suoi deliri, ad accompagnarla nella sua deriva suicida che, dopo un’illusoria fuga dall’alcol, non conoscerà più alcun freno.

Tragica, la storia è al tempo stesso un ritratto d’epoca che ci riporta al grande cinema degli anni Ottanta e Novanta: dal Ken Loach di Piovono pietre e di Ladybird, Ladybird allo Stephen Daldry di Billy Elliot, che viene evocato in una bellissima scena di ballo nelle pagine centrali del romanzo.

Echi da James Kelman
Sul piano letterario, il modello cui Stuart sembra attingere, più che l’Irvine Welsh acido e «tossico» di Trainspotting, è quel James Kelman che, nel 1994, aveva vinto a sua volta il Booker Prize con How Late It Was, How Late (meritoriamente tradotto da un piccolo editore, Sartorio, ma ormai introvabile in Italia), scatenando una violenta polemica tra gli stessi giurati, alcuni dei quali ne avevano trovato intollerabile la violenza e la perdizione senza riscatto.

C’è però, in Storia di Shuggie Bain, qualcosa di speciale, legato in primo luogo alla profonda empatia con la quale sono tratteggiati tutti i personaggi, inclusi quelli di contorno, e alla capacità di alternare dramma e commedia, episodi quasi intollerabili nella loro brutalità e scene grottesche che strappano la risata. Scorre, in molte pagine del libro, una vitalità residuale e offesa, ma non per questo meno intensa; una disillusione che si apre, nonostante tutto, alla speranza. Vero motore del romanzo è l’amore profondo che lega Shuggie a Agnes: niente, neppure la rabbia o la fame, è in grado di scuoterlo.

Agli occhi di Shuggie, i fratelli e il padre sono dei traditori, che hanno abbandonato Agnes al suo destino. Dunque, non seguirà il suggerimento del messaggio commovente, che il fratello Leek cerca di trasmettergli, prima di lasciare per sempre la casa di Pithead: «Non commettere il mio stesso errore. Non starà mai meglio. L’unica cosa che puoi salvare è te stesso.» Fino all’ultimo, Shuggie rimane con Agnes, e i lettori con lui: anche sul piano narrativo, è quasi impossibile staccarsi da questa donna bellissima e offesa, sboccata e tenera, ferita ma incapace di dire addio alle illusioni. In una sua bella considerazione sul romanzo di Stuart, Stephen Amidon ha paragonato Agnes alle eroine di Tennessee Williams, a loro volta devastate dallo sfiorire della propria bellezza prima ancora che dall’alcol. Illuminata dall’amore che il figlio continua ostinatamente a riservarle, Agnes diviene una figura insieme mitizzabile e molto concreta, e il suo corpo oltraggiato, la dentiera che ha deciso volontariamente di portare, facendosi estrarre tutti i denti, troppo piccoli e storti, le ostentazioni di eleganza con le quali confonde e infastidisce le vicine di casa, alimentano la linfa vitale dell’intero racconto.