Originate dall’assenza, tutte le lettere hanno in sé qualcosa di irrisolto, proprio perché tentano di sopperire per iscritto all’impossibilità di una comunicazione orale. Consapevoli di questa tensione, non pochi scrittori hanno saputo trasformare l’obbligo sociale della corrispondenza in una parte costitutiva della loro opera, esplorando le potenzialità offerte da una forma espressiva che, di per sé, è sospesa tra ambito privato e pubblico, riflessione e sfogo, introspezione e disvelamento del proprio Io.

Ci sono, tuttavia, anche numerosi esempi di persone che nella stesura della loro corrispondenza hanno visto solo una perdita di tempo indebitamente sottratto al loro lavoro: Fëdor Dostoevskij è tra questi, sebbene autore di un epistolario sterminato che infatti tradisce la sua invincibile avversione per l’atto stesso di scrivere lettere. Lo si comprende leggendo il volume pubblicato di recente dal Saggiatore, Fëdor Dostoevskij Lettere (a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia De Florio ed Elena Freda Piredda, pp. 1376, € 75,00) inviate dal romanziere tra il 1832 e il 1881. Attingendo agli archivi di innumerevoli destinatari, questa scelta vastissima integra in misura significativa il corpus già tradotto da Ettore Lo Gatto nel 1950 e riproposto tre anni fa da Nino Aragno con il titolo I demoni quotidiani.

Critico spietato di se stesso, Dostoevskij era disposto ad ammettere il carattere caotico e imperfetto delle proprie lettere: «Non so scriverle e riguardo a me non so scrivere con misura». D’altra parte, imputava al genere epistolare una sostanziale incapacità di trasmettere «ciò che sarebbe necessario». Del tutto coerente, dunque, il fatto che le pagine più coinvolgenti di questo volume siano quelle in cui Dostoevskij «dimentica» di assolvere ai doveri della corrispondenza e si dispone a rielaborare avvenimenti e personaggi come se lavorasse a un romanzo.

Esemplare in questo senso è il minuzioso resoconto risalente all’estate 1856 in cui lo scrittore ricostruisce al barone Aleksandr von Wrangel l’intricatissima situazione in cui si trovava Marija Isaeva, la vedova che di cui era innamorato e che di lì a qualche mese sarebbe diventata sua moglie. Enumerando gli ostacoli che impedivano il loro matrimonio (non ultimo il fatto che la donna sembrava preferirgli «un siberiano di 24 anni»), Dostoevskij trasfigura quelle circostanze dolorosamente private in un intreccio narrativo dove ogni elemento viene attentamente soppesato e nessuna eventualità esclusa.

Al tempo stesso, Marija Isaeva ne esce «forte e indisciplinata», mostrando quella levatura del carattere che sarebbe stata propria delle sue protagoniste più volitive e affascinanti. «Non conosce se stessa, ma io la conosco!» assicura Dostoevskij a von Wrangel quasi stesse parlando di un suo personaggio e, rievocando l’amore contrastato intorno al quale ruotava la sua opera d’esordio, Povera gente, si diceva certo di aver inconsapevolmente predetto il proprio futuro.

Com’è noto, il destino non lesinò all’autore dei Demoni situazioni rocambolesche, perfette per far evolvere i resoconti della sue lettere in veri e propri microracconti. Lo dimostrano le missive inviate da Wiesbaden a Apollinarija Suslova, prototipo della figura di Polina nel Giocatore. Qui Dostoevskij si autorappresenta barricato in una camera d’albergo, nell’impossibilità di saldare il conto dopo l’ennesima perdita alla roulette e in spasmodica attesa che un vaglia di Aleksandr Herzen lo salvi da una situazione tanto incresciosa. Proprio in quei giorni convulsi, nutrendosi esclusivamente di un tè «cattivissimo» e tormentato dal disprezzo dei camerieri tedeschi che gli negavano perfino le candele, Dostoevskij mise a punto la trama di Delitto e castigo.

Europa non amata
Altrettanto romanzesco è lo sfondo al centro della lettera del 23 aprile 1867, anch’essa indirizzata a Suslova. Ancora incredulo per la piega assunta dagli eventi, lo scrittore comunica alla sua ex amante di essersi risposato con la stenografa che l’aveva aiutato a consegnare il Giocatore in soli 24 giorni e essere fuggito con lei alla volta di Dresda, onde evitare di finire in carcere per debiti come mister Micawber, il personaggio creato da Charles Dickens cui amava tanto paragonarsi.

Le lettere dall’estero costituiscono un capitolo a sé; qui alla consueta insofferenza per la forma epistolare si aggiunge anche la frustrazione per non essere in grado di fornire quelle vivide impressioni di viaggio che i suoi corrispondenti si aspettavano: «Che strano, scrivo da Roma e non ho scritto neanche una parola su Roma! Ma cosa potrei scriverVi? Dio mio! Si può forse descrivere tutto questo in una lettera?» domanda Dostoevskij all’amico Strachov al termine di una lunghissima epistola focalizzata unicamente sui suoi progetti letterari.

Benché in Europa lo scrittore avesse sperimentato una temporanea liberazione sia dai creditori, sia dalle crisi epilettiche che lo perseguitavano, l’immagine del Vecchio Continente fatica a emergere dai suoi carteggi, sovrastata com’è dal ricordo idealizzato della madrepatria. D’altro canto, anche all’estero Dostoevskij conduceva una esistenza da recluso, pur di non incappare per strada nei suoi connazionali emigrati, cui invariabilmente attribuiva simpatie socialiste e russofobia. Molto meno contraria di lui al turismo si rivelò la seconda moglie, Anna Grigor’evna, più giovane di ventiquattro anni. «Per lei è una vera e propria occupazione andare a visitare uno sciocco municipio, prendere nota, descriverlo (cosa che fa con i suoi segni stenografici, ha già riempito sette quaderni», confida Dostoevskij a Apollon Majkov, in un tono tra il perplesso e il condiscendente.

Restio ad articolare per lettera le proprie sensazioni, Dostoevskij si limita a notazioni atmosferiche e sfoghi biliosi: Ginevra gli pare «situata nel posto più abominevole di tutta la Svizzera», Firenze «bella ma molto umida», Torino «noiosissima».

Se Dresda ha l’unico vantaggio di essere meno cara di Pietroburgo, Milano gli nega anche quel minimo conforto che gli concede Vevey, il conforto di leggere i giornali russi al caffè. Perfino la ville lumière desta in lui sentimenti contrastanti: «Non mi piace Parigi, sebbene sia di un tremendo splendore. C’è molto da vedere, ma non appena ti guardi intorno, sei preso da una tremenda noia», ammise nel 1863 alla cognata. Solo in un luogo Dostoevskij si sentì a proprio agio, e cioè nell’isolamento che gli garantiva l’antica cittadina di Staraja Russa, dove trascorse lunghi periodi negli ultimi anni di vita e ambientò in parte I fratelli Karamazov. Qui imparò perfino a scrivere lettere o almeno si sottomise più docilmente a questa necessità per riferire di giorno in giorno alla moglie lontana contrattempi e gioie della vita domestica con i figli a lui affidati.

Sovrana impazienza
Dal carteggio con Anna Grigor’evna emerge l’immagine di un uomo meno tormentato e di un marito affettuoso, disposto a versare fiumi di inchiostro per rassicurare l’amata sulla costanza dei suoi sentimenti. Eppure, anche con lei riaffiora, a tratti, quell’impazienza che, un tempo, lo aveva spinto a liquidare un suo corrispondente con questa citazione dal Diario di un pazzo di Gogol’: «Una lettera è una stupidaggine. Le lettere le scrivono i farmacisti».