Prendere i passi più scioccanti e sublimi di Dostoevskij, come se la sua opera fosse un paesaggio da cui prelevare picchi e abissi. Allinearli uno dopo l’altro, come a voler comporre una silloge anomala del «gigante russo», e lasciare che essa produca da sé i suoi effetti: così ha lavorato Julia Kristeva in Dostoevskij Lo scrittore della mia vita (traduzione dal francese e dal russo di Lila Grieco, Donzelli, pp. 184, € 30,00), giustapponendo pagine dei romanzi più celebri ma anche brani dalle lettere, dal Diario di uno scrittore, dai racconti. E in una lunga introduzione che occupa un terzo dell’intera impresa editoriale, ha anteposto al Dostoevskij antologizzato il Dostoevskij riletto criticamente con gli strumenti della semiotica, della psicoanalisi, della linguistica, degli studi di genere.

Anticipata nel sottotitolo, la chiave autobiografica innerva i momenti critici più salienti del lavoro: lo stordimento derivato dalla prima, giovanile lettura dell’Idiota – di fronte alla «contagiosa colata ebbra di dialoghi composti in forma di racconto» – presiede ancora oggi alla venerazione nei confronti dello scrittore; nel sorvolare l’arcipelago delle solitudini femminili della geografia dostoevskiana o nel dissezionare le «anatomie dell’odio» di cui si nutrono le relazioni delle sue coppie, Kristeva attinge a piene mani alla propria esperienza di analista e di femminista; le stesse rivelazioni dei fondamenti «linguistici» alla base di alcune invenzioni narrative hanno dietro una salda competenza personale del russo.

Sull’autore della sua vita, Kristeva stende uno sguardo empatico, complice. Di più, si confonde con il suo mondo convulso, raddoppiando l’inesplicabile, piuttosto che aspirare a imbrigliarne la piena della narrativa. Guarda al celebre tema del parricidio come a una autoanalisi attraverso la scrittura, sovrapponendo «l’inventore dell’inconscio» (il Freud attento lettore di Dostoevskij) all’ideatore del romanzo polifonico: Dostoevskij ci parla di quegli «stati limite della coscienza che, scrutati con tagliente precisione chirurgica, sarebbero diventati accessibili alla ricerca solo nel secolo successivo». Alcune delle formule in cui Kristeva distilla le sue analisi centrano con lampi realmente illuminanti intere tipologie di personaggi dostoevskiani: per esempio quando nota che «al narratore piace sfumare i confini tra i due universi dell’odore e dello spirito»: «la sporcizia, la putrefazione, la morte stessa partecipano della spiritualità».

Con qualche sporadica caduta: nel sogno di acclimatare il «suo» Dostò nell’oggi, indulge a facili concessioni, e nell’arco della stessa pagina in cui parla del gioco, affibbia l’epiteto di addicted sia a Dostoevskij che al suo personaggio, o allude alle capacità da «giovane trader» della Grušen’ka dei Fratelli Karamazov, o ancora parla del potere del denaro che domina il «marketing universale» come tema ossessivo dello scrittore russo.

Le due parti di cui il volume si compone dialogano tra loro in modo non immediatamente speculare, ma senz’altro vivido: ne viene fuori un «sistema Dostoevskij» sforbiciato «à la Kristeva». L’antologia estrapola, dall’immenso universo dostoevskiano, quattro visioni oniriche, tre sdoppiamenti farneticanti, alcuni aneddoti sui bambini, l’idea di Russia e quella di Europa. La libertà di fronte a Cristo e le presenze demoniache; quanto, nella scrittura, sia sradicato e impiantato dall’esperienza del bagno penale. Il gioco come ossessione, l’epilessia, il carnevalesco. In un montaggio condotto con estrema perizia: le chiuse soprattutto, fulminanti e rivelatrici, additano i legami reconditi tra un brano e l’altro.
E il florilegio che ne sortisce, il mondo di Dostoevskij per stralci, sprigiona una sua bellezza sofferta, incandescente, che genera l’effetto voluto: il desiderio di tornare a rileggere per intero le opere, riandando alla fonte prima della malia – quel gesto scritto che riproduce «la voluttà di essere la ferita e insieme il coltello».