«Mi hanno sempre chiamata Bone, ma il mio nome è Ruth Anne. È il nome di una delle mie zie, la più grande, zia Ruth. Mia madre non protestò quando me lo diedero, perché sostanzialmente non c’era». Nelle prime righe di La bastarda della Carolina, finalmente tradotto in italiano (impeccabile la versione di Sara Bilotti, minimum fax, pp. 400, euro 18,00) Dorothy Allison rende già presenti tanto i temi quanto il tono di questo romanzo acclamato sia dalla critica che dal pubblico. La voce narrante è quella di una tredicenne alla ricerca del proprio vero nome; accanto a lei la famiglia materna dei Boatwright, estesa e turbolenta, con la madre Anney, fragile e lontana.
A partire da questi elementi, non particolarmente originali, Dorothy Allison – statunitense nata in South Carolina nel 1949 e cresciuta in una famiglia di lavoratori precari – scrive il suo singolare romanzo d’esordio, notevole sia per la qualità della scrittura che per la ricchezza psicologica e sociologica con cui descrive luoghi e temi poco frequentati nel romanzo americano.

Sul certificato di nascita un marchio rosso indica che Bone è una «bastarda», figlia di padre ignoto e di Anney Boatwright, appena quindicenne quando nasce la bambina, e per di più in coma a causa di un incidente stradale. A quella sua prima involontaria «assenza» ne seguiranno altre dovute al lavoro che le serve per sopravvivere, giovanissima vedova, con due figlie piccole, incapace com’è di accorgersi della vera personalità del secondo marito, «papà Glen», sposato nella speranza di offrire a se stessa e alle bambine il sostegno di una famiglia «tradizionale».

In un certo senso è proprio Anney la vera protagonista del romanzo: la storia di Bone è intrecciata alla sua, e riguarda un reciproco amore tanto profondo quanto immaturo, traversato dai silenzi della bambina che omette di raccontare le violenze subite dal patrigno, mentre la madre di fronte all’evidenza preferisce a lungo la via dell’autoinganno.

Dorothy Allison si dichiara erede della tradizione del realismo lirico che accomuna molti autori del Sud degli Stati Uniti, e la sua prosa tersa e spigolosa lo conferma: il paesaggio della Carolina e il mondo interiore di Bone si amalgamano con naturalezza, mentre i dialoghi sono resi in un linguaggio colloquiale, spesso aspro, che illumina il non detto degli adulti a partire dalla prospettiva e dalla voce di una bambina. Alla sensibilità disorientata del giovane Holden, Bone sembra unire la tensione ribelle delle protagoniste dei romanzi di Carson McCullers. Ma ciò che la rende unica è la consapevolezza di appartenere al mondo degli «illegittimi». Il romanzo è ambientato negli anni Cinquanta, quando il lavoro disponibile è scarso e i rari bianchi benestanti guardano con disprezzo quella che chiamano «white trash»: «Mamma odiava… il ricordo di tutti i giorni che aveva trascorso piegata nei campi di arachidi e fragole, mentre quelli se ne stavano belli dritti e la guardavano come se fosse una pietra in mezzo all’erba».

È a quel mondo invisibile, spesso affamato o in fuga dai creditori, che appartiene la famiglia Boatwright: zie e cugine appaiono allo sguardo di Bone «vecchie, consumate e lente, sembrava fossero nate solo per fare le madri, le balie, le cameriere agli uomini», mentre gli uomini rissosi ed esuberanti, sanno trasformarsi in maestri gentili quando c’è da insegnare alla nipotina come impugnare un coltello o un cacciavite per difendersi dai malintenzionati. A loro modo i Boatwright cercano di proteggere la piccola Bone, ma la solidarietà maschile sembra impedirgli di riconoscere il pericolo in cui si trova. Saranno dunque le donne a intervenire, soprattutto la zia Raylene, che vive isolata dopo che la donna che amava è tornata dal marito per non perdere il diritto di vedere suo figlio. Grazie a Raylene, Bone comincia a intuire la trama complicata e contraddittoria di cui è intessuto ogni amore, e da lei viene aiutata a trovare una voce propria e a dare forma al suo destino, in un finale e coraggioso.