Cresciuta nel mondo dei bianchi poveri della Carolina del Sud, Dorothy Allison dà voce a personaggi che condividono una vitalità brutale, esaltata nell’avversione a ogni forma di «correttezza politica»: «Ci chiamano ceti bassi, plebaglia, classe operaria, poveri, proletari, pezzenti, rifiuti umani o feccia. Da tutto questo so far nascere storie», scrive. Il mondo letterario statunitense dimostra di solito scarso interesse per la white trash, la «feccia bianca» protagonista dei libri della scrittrice a partire dalla sua prima raccolta di racconti, datata 1988 e titolata appunto Trash, eppure il «realismo sporco» di Allison, ironico e spietato, le ha ritagliato uno spazio significativo.

Ora, nelle pagine di Due o tre cose che so di sicuro, nato come monologo teatrale, e ottimamente tradotto da Sara Bilotti, apprezziamo una volta di più la forza e l’originalità della sua scrittura (minimum fax, pp. 92, € 12,00). Dorothy Allison rivisita i luoghi e i temi al centro del suo primo romanzo, La bastarda della Carolina, il cui enorme successo aveva contribuito alla visibilità di quell’argomento spesso rimosso che è la violenza sessuale nei confronti dei bambini. Fino ad allora conosciuta solo nell’universo della controcultura femminista e lesbica degli anni Ottanta per le sue raccolte di racconti e poesie, Allison – incoraggiata dal sollievo provato nel rivelare le paure e il senso di colpa che avevano sconvolto la sua vita dopo lo stupro subito da parte del patrigno – torna sulle scene descritte nel romanzo, ma abbandona il codice della finzione per rivelare nomi e volti delle persone che avevano ispirato i suoi personaggi.
Due o tre cose che so di sicuro ci mostra, accanto alla restituzione dei ricordi, una collezione di fotografie scattate per celebrare le parentesi di normalità nelle esistenze faticose di Ruth, la madre di Dorothy, e della sua numerosa famiglia, i Gibson, sempre in fuga dai creditori eppure incapaci di lasciarsi davvero alle spalle il mondo di Greenville, South Carolina.

In questi ritratti, troviamo quattro generazioni di Gibson immobili accanto alle icone di una rispettabilità agognata e irraggiungibile: l’automobile nuova, con i figli in posa accanto ai fanali, le divise impeccabili, da commessa o da cameriera, in uno dei ristoranti per camionisti in cui Ruth aveva cercato di guadagnare abbastanza denaro per lasciare il suo secondo marito, dopo aver scoperto le violenze nei confronti di Dorothy. Non sarebbe mai riuscita, a separarsene.

Fu invece Dorothy a trovare il modo di dare una svolta al suo destino: Due o tre cose che so di sicuro rivela quanto drammaticamente autobiografico fosse La bastarda della Carolina, che si concludeva con la protagonista appena adolescente. A quella storia Allison aggiunge però un secondo atto: la vita adulta, le borse di studio per l’università, l’incontro con il femminismo negli anni Sessanta. Ma per lei che era sopravvissuta a un trauma tanto grave nulla era facile: gli amori autodistruttivi, la passione dichiarata per le armi da fuoco, i conflitti con le compagne del movimento, che la accusano di scrivere racconti pornografici. Le due o tre cose cui allude il titolo, sono quelle che si ha bisogno di raccontare e che, grazie all’arte della dissimulazione, possono «trasformare la disperazione in qualcosa che la gente trova comprensibile». Tra foto sbiadite e inquadrature scontate, in questa Spoon River domestica, Allison raggiunge un lirismo che non cede mai a toni consolatori, mostrando che c’è una strada, faticosa ma percorribile, per chi al proprio passato non si arrende.