Con il mediometraggio La zita prosegue la ricerca visuale di Warshadfilm, duo formato da Tiziano Doria e Samira Guadagnuolo. In realtà non sono dei semplici filmmaker ma sperimentatori totali, gli unici in Italia che, oltre a girare in 16mm negativo (usando Bolex, Arri e altre cineprese), sviluppano e stampano tutti i loro materiali in bianco e nero (e tra breve anche a colori). A Milano hanno messo in piedi un laboratorio, Labbàsh, pieno di macchine che hanno assemblato o modificato da soli partendo da vecchi dispositivi, magari usandoli in modo improprio e realizzando processi chimici tradizionali, a volte intervenendo in fase di stampa mediante la tecnica della traslazione.

«Io ho studiato fotografia mentre Samira cinema», racconta Tiziano, «così quando ci siamo conosciuti e ho scoperto che lei aveva una cinepresa 16mm, le ho proposto subito di fare un film in questo formato. Ma ormai il 16mm lo avevano dismesso, così abbiamo cominciato a rimettere a posto vecchie macchine o ad assemblare pezzi che tanti ci hanno regalato. Per esempio Anna Missoni, montatrice di alcuni film di Studio Azzurro, ci ha regalato la sua moviola e noi l’abbiamo trasformata in stampatrice dopo averla restaurata da cima a fondo, rifacendo le cinghie e le parti elettriche».

Per inaugurare la nuova moviola Tiziano e Samira hanno fatto una festa in un piccolo teatro alla periferia di Milano, riproponendo in pellicola Facce di festa, il primo film realizzato dal collettivo di videoartisti montato proprio con quella moviola. Alla fine sono venuti tutti a quella serata, inclusi i fondatori di Studio Azzurro Sangiorgi e Cirifino.

Ma Doria e Guadagnuolo non sono pazzi nostalgici, hanno ricominciato a lavorare in modo autarchico sul 16mm spinti dal limite stesso dalle macchine. «Questo limite per noi», come spiega Samira, «diventa un’opportunità creativa. Questi dispositivi che all’origine avevano rigide finalità industriali, nelle nostre mani sono diventati macchinari «morbidi», non standardizzati. Un tempo adoperarle poteva essere stressante perché c’era un margine di errore, mentre adesso sono uno strumento di libertà, poiché l’imperfezione e la bassa definizione per noi sono un valore».

Il cinema monocanale di Samira e Tiziano e le loro installazioni pluricanale, accompagnate anche da live musicali in qualche occasione, sono in bilico tra il documentario e la sperimentazione, tra il found-footage e l’indagine antropologica: del resto partono spesso da materiale di archivio, fotografie e home movies. Saltatori (2016), basato su alcuni fotogrammi desunti da Olimpia della Riefenstahl, stampato a contatto direttamente in macchina 15 metri per volta, con la Bolex trasformata in stampatrice, è una installazione in loop proiettata su due schermi: l’effetto è quello degli atleti colti sempre nell’attimo prima di saltare. Anche in Dervisci (2018) lo stesso spezzone di due dervisci danzanti (sovrapposti con esposizione multipla) vengono proiettati su due schermi appaiati ma sfalsati; il risultato è fortemente ipnotico, con un cambio di velocità continuo, inoltre la doppia esposizione crea alcune zone nere come se la figura producesse il mascherino di sé stessa.

Singolare è anche il procedimento di Asia (2018), un’installazione in cui alcune fotocopie negative – che raffigurano collage con dettagli di fiori, corpi e altro – sono filmate panoramicando con la cinepresa (su cui è montata un obiettivo invertito) usando una pellicola ortocromatica in modo da avere già una copia positiva da proiettare.

Molto diverso dagli altri è Festa nuziale (2019), dove immagini fotografiche di famiglia in bianco e nero filmate con un obiettivo macro, sono intervallate da didascalie; la scelta è quella di mostrare solo dettagli dei corpi creando una piccola narrazione intorno a uno sposalizio inteso come rito di passaggio ma anche cerimonia funebre. Canti neri (2019), infine, è la versione monocanale che sintetizza 10 film da 30 metri: rifilmando in 16mm b/n materiali originali in super8 a colori della Somalia zoomandoci dentro e rallentando la velocità (una sorta di «camera analitica» alla Gianikian e Ricci Lucchi) i due autori, anche in questo caso utilizzano didascalie su fondo nero, ci suggeriscono poeticamente tanti spunti narrativi.

Solo i due lavori monocanale, Incompiuta (presentato a Locarno nel 2019) e La zita, sono stati stampati in un laboratorio professionale, data la mole di girato che il duo non avrebbe potuto gestire autonomamente, nonché la presenza del colore. Incompiuta è una tranche de vie domestico-campestre, una delicata elegia di corpi, piante (di fico) e pietre (di edifici romanici), scandita solo da una poetica voice over. La location de La zita è la medesima, ovvero Venosa, paese d’origine di Tiziano, anche se, come ricorda lui stesso, «abbiamo deciso di seguire e osservare quelle stesse persone nel loro spazio per più tempo (tre anni per l’esattezza). Ci piaceva questo confronto generazionale, il fatto che tutti i componenti ruotassero intorno alla nonna, come in una classica famiglia allargata del Sud Italia. Ma questo è stato solo un espediente per raccontare una storia collettiva».

Il risultato è un’altra elegia del tempo sospeso, con rituali, parole, gesti e silenzi, qualcosa che probabilmente sarebbe stato impossibile da rendere senza la grana della pellicola 16mm, che riesce a rendere poetico il reale, arcaico perfino il karaoke. «Un lavoro parallelo fatto in questi anni», aggiunge Samira, «è stato quello di intervistare molte donne di diversa età sul tema dell’amore. Tra questi racconti ne abbiamo scelto solo uno, facendolo confluire in una narrazione a più voci, tutte femminile. E anche le capre che si vedono nel film sono rigorosamente femmine. C’è un parallelismo tra le donne e le capre, nel senso che entrambe hanno uno spirito indomito e anarchico, non si lasciano dominare, pur essendo vittime di vessazioni. È davvero incredibile come tra le tante donne intervistate nessuna ci ha raccontato una storia dove non ci fosse il desiderio di una rinascita».