«Tutte le guerre si combattono due volte. La prima volta sul campo di battaglia, la seconda nella memoria». Effettivamente, anche per chi è nato dopo la caduta di Saigon, la guerra del Vietnam resta un ricordo indelebile, rinverdito dal numero incredibile di opere letterarie e cinematografiche che l’hanno raccontata. Ma è una memoria incompleta – ci avverte Viet Thanh Nguyen, vincitore del Pulitzer per il suo romanzo Il simpatizzante (traduzione di Luca Briasco, Neri Pozza, pp. 384, euro 18,00) – perché costruita quasi interamente dal punto di vista di chi quella guerra l’ha persa: gli Stati Uniti.

Nato in Vietnam, dopo la fuga della famiglia nel 1975, Nguyen ha trascorso tre anni da rifugiato, tra un campo profughi della Pennsylvania e una famiglia americana, prima di ricongiungersi ai genitori, che nel frattempo avevano aperto un negozio di alimentari vietnamiti in California. Oggi, da professore di letteratura americana e studi etnici presso l’University of Southern California di Los Angeles, Nguyen si occupa prevalentemente dell’immaginario creato dalla guerra del Vietnam nella cultura popolare.

Anche per questo, Il simpatizzante è un romanzo difficile da inquadrare, intriso di sorprendenti riflessioni filosofiche e politiche, e allo stesso tempo in bilico tra generi quali il romanzo di guerra e di spionaggio. Raccontato in prima persona da una spia del Vietnam del Nord, figlio illegittimo di un prete francese e di una donna vietnamita, il romanzo sembra ispirato alla lezione prospettica dell’Uomo invisibile di Ralph Ellison, esempio magistrale di ridefinizione dell’altro razziale nell’America dei bianchi.

Dopo una rocambolesca fuga da una Saigon in fiamme, il protagonista, che resta senza nome per tutto il romanzo, si stabilisce a Los Angeles, dove continua la sua opera di controspionaggio, lavorando come sicario per un ex-generale del Vietnam del Sud, ma con il compito, in realtà, di raccogliere informazioni sui membri della diaspora vietnamita per conto dei comunisti, che nel frattempo hanno riconquistato il paese. L’evento principale di quella che si scopre essere una lunga confessione scritta nella cella d’isolamento di un campo di rieducazione, arriva quando il protagonista si trova inaspettatamente a lavorare come consulente per un regista hollywoodiano che sta girando un film sulla guerra del Vietnam. È qui che emerge con maggiore chiarezza e sarcasmo l’intento principale del Simpatizzante: dare una voce ai ricordi dei vietnamiti.

Il protagonista ha il compito di convincere dei disperati rifugiati di guerra a interpretare il ruolo di spietati e muti Viet Cong, le figure da cui loro stessi sono stati terrorizzati. Nonostante la tragedia che questi uomini hanno vissuto, dietro la macchina da presa del regista i vietnamiti restano mere comparse di un dramma narcisistico tutto americano, in cui anche noi siamo in parte coinvolti.

Sebbene l’autore non riesca sempre a tenere del tutto a bada la propria cultura accademica e letteraria, che filtra con forza nella voce del protagonista, grazie a uno stile che alterna senza soluzione di continuità i toni della tragedia e dell’umorismo nero, Nguyen ha costruito un romanzo audace e avvincente che impone al lettore di rinegoziare continuamente le proprie concezioni di Oriente e Occidente.

Nel suo ufficio di Los Angeles, tra i poster pubblicitari del libro che sotto il cellophane ricordano sbiadite bandiere rosse, Nguyen parla del suo romanzo.
«Il simpatizzante» si apre con una dichiarazione di assoluta doppiezza da parte del suo protagonista, un intellettuale estremamente autoconsapevole: «Sono una spia, una talpa, un informatore, un uomo con due volti». Per quale ragione ha scelto proprio il punto di vista di una spia del Vietnam del Nord per raccontare gli anni successivi alla caduta di Saigon?
La ragione è che volevo raccontare una storia avvincente e seria allo stesso tempo. Nonostante gli eventi storici e la politica siano ovviamente al centro di questo libro, ho sviluppato l’intreccio attraverso le convenzioni di genere del romanzo di spionaggio. Senza contare il fatto che le spie hanno avuto un ruolo fondamentale durante laguerra del Vietnam. Una spia è già di per sé un personaggio doppio, che vive in due mondi contemporaneamente, ma il mio protagonista lo è due volte, in quanto di padre francese e madre vietnamita. Tramite questo tipo di dualismo ho cercato di affrontare le differenze tra l’Oriente e l’Occidente, da una parte, ma anche il senso di ambiguità che noi tutti proviamo quando si tratta di definire chi siamo, le nostre scelte, e il nostro senso di appartenenza.
L’ambiguità del racconto in prima persona sembra amplificata anche dal fatto che il monologo del protagonista è in realtà una lunga confessione scritta in cella d’isolamento. Perché ha impostato il romanzo su questo modello letterario?
Volevo che alla base di tutto ci fosse qualcuno che parla a un’altra persona. E che la persona che ascolta la storia fosse vietnamita. Il racconto, insomma, è la confessione di un vietnamita a un altro vietnamita. E la ragione è che, almeno negli Stati Uniti, la maggior parte dei romanzi etichettati come «minority literature» sono scritti per un pubblico occidentale e dunque maggioritario, con una notevole distorsione del meccanismo narrativo. Ad esempio, si può sentire il bisogno di spiegare determinati aspetti della propria cultura, cosa che uno scrittore occidentale non ha mai bisogno di fare. Ecco, in questo romanzo ho voluto esercitare lo stesso tipo di privilegio, il che implica da parte di lettori non vietnamiti una grande attenzione, perché ci sono cose che non vengono loro spiegate. E infine, mi interessava fare emergere il rapporto tra la confessione come pratica disciplinare molto comune nei regimi comunisti, in particolare nei campi di rieducazione nati dopo la fine della guerra in Vietnam, e la sua connotazione religiosa nella tradizione cristiana, visto che il mio protagonista è, oltre che comunista, il figlio di un prete cattolico francese.
Michel Foucault ha riflettuto parecchio sulla confessione come sistema disciplinare che in quanto «atto di verità» funziona solo se ci sottomette all’obbligo di credere. Anche il suo lettore deve, in un certo senso, credere a quanto gli viene raccontato. Quale tipo di verità storica può dunque emergere dalla confessione che sta al centro del «Simpatizzante»?

La persona che sollecita la confessione di qualcun altro vuole la verità, ma si tratta di una verità contingente, basata su quello che gli interessa sapere, soprattutto nel caso di un interrogatorio. Il narratore del mio romanzo è dunque completamente inaffidabile, perché non si può sapere se stia raccontando la verità a chi lo interroga, nonostante ripeta continuamente di volere essere sincero riguardo i suoi rapporti con i vari regimi per i quali ha collaborato, quello del Vietnam del Sud, quello americano e quello comunista. C’è dunque una tensione molto forte tra l’esplicitato intento di sincerità del protagonista e la sua inaffidabile condizione di interrogato. E poi, ovviamente, c’è anche la sua convinzione di conoscere la verità su se stesso, ciò che lo fa sentire più intelligente degli altri, anche se alla fine comprendiamo come ci siano parti di sé che non riesce fino in fondo ad accettare.
Il cinema, quello di Hollywood in particolare, ha un ruolo molto importante nel suo romanzo. A un certo punto il protagonista, che si è trasferito a Los Angeles, si trova a collaborare alla realizzazione di un film le cui scene ricordano molto da vicino «Apocalypse Now» di Francis Ford Coppola. Che cosa ha provato guardando questo film per la prima volta e perché ha deciso di trasformarlo in uno degli elementi principali della vicenda?
«Apocalypse Now» è un film importantissimo, un’opera d’arte che rispetto e che però mostra come Hollywood, in quanto arma di propaganda culturale degli Stati Uniti, sia stata fondamentale per diffondere nel mondo il punto di vista americano, anche per quel che riguarda la guerra del Vietnam. Mi sono sentito in dovere di contestare questo tipo di memoria collettiva, facendo la satira di uno degli strumenti principali che hanno concorso alla sua formazione, di modo che i lettori si rendessero conto della componente propagandistica del proprio immaginario.
Lei è anche professore di letteratura americana e studi etnici. Nel suo ultimo saggio, «Nothing Ever Dies» (Harvard University Press, 2016), che riguarda la rappresentazione dell’identità vietnamita nella cultura occidentale, sostiene che se vogliamo creare una memoria giusta, dobbiamo riconoscere la nostra umanità e la nostra disumanità, ma anche quella degli altri. Crede che questo concetto entri anche nel suo romanzo?
Negli Stati Uniti, ma credo anche nell’Occidente in generale, quando sei uno scrittore e ti identificano come l’altro rispetto alla cultura dominante, la tentazione che ti viene è quella di calcare sugli aspetti umani della tua alterità; ma è sia una trappola sia un limite: sappiamo tutti che l’essere umano è profondamente imperfetto, dunque scrivere di umanità unicamente come altro significa di fatto soccombere al senso di superiorità della cultura dominante. Ho voluto che il mio romanzo rigettasse ogni senso di superiorità, così da potermi esprimere come se facessi parte della maggioranza senza negare la mia appartenenza a un gruppo minoritario.
«Accetto l’assurdità del nostro stato con un misto di disperazione e rabbia, e un pizzico di ironia, un cocktail sotto il cui effetto ho rinnovato i miei propositi rivoluzionari». Non le sembra che gli ingredienti di questo cocktail descritto dal protagonista corrispondano anche allo stile che ha scelto per il suo romanzo, una miscela di dramma e umorismo?
Sì, mi pare una descrizione molto precisa dello stile che ho utilizzato. C’erano già tantissimi libri sulla guerra o sui rifugiati che si concentrano sulla tragedia, sul dolore o la malinconia: per rendere tutto ciò sopportabile a me sembrava che servisse l’umorismo nero, che è quanto funziona meglio a comprendere l’assurdità della guerra. Uno stile come quello che ha appena descritto è una provocazione: data la serietà dell’argomento il riso si trasforma in una forma di sollievo, ma anche in uno strumento politico di conoscenza.
Ho letto che sta per scrivere un seguito del «Simpatizzante». Non le sembra una mossa arrischiata dopo il successo ottenuto da questo libro?
Sono un grandissimo amante della letteratura di genere e in quel campo i sequel, le serie e le trilogie non sono infrequenti. Inoltre, quando ho completato questo romanzo mi sono reso conto che la vita del mio protagonista era incompiuta, e che il suo viaggio sarebbe stato ancora molto lungo. Parte di questa incompletezza deriva dal fatto che la maturazione della sua autocoscienza, così com’è raccontata nel Simpatizzante, non è terminata. Mi piace considerarmi uno scrittore dialettico e ho certato di riflettere questa mia attitudine nel romanzo: alla fine del libro le convinzioni e l’ideologia del protagonista risultano distrutte. Poiché desidero che questo sia anche un romanzo politico devo fare in modo che si compia un’altra trasformazione della sua coscienza, un altro passaggio.