Più di trenta morti e almeno settanta feriti. È il terribile bilancio degli attentati di Volgograd. Due in due giorni. Il primo, domenica, alla stazione centrale. L’attentatore s’è fatto saltare in aria all’ingresso della struttura. Era presumibilmente una donna, come riportato da lifenews.ru, sito giornalistico con buone fonti nell’intelligence. La seconda esplosione s’è registrata ieri mattina a bordo di un tram, nei pressi del mercato del quartiere Dzerzhinsky. Anche in questo caso – per gli investigatori, la firma sul massacro è stata apposta da un kamikaze. Nessuno, al momento, ha rivendicato l’attacco. Né sono state formulate accuse specifiche. Ma tutti i sospetti conducono a Dokka Umarov, il numero uno dei ribelli islamisti del Caucaso, che più volte hanno frastornato la Russia con i loro attentati.

Ci si chiede: perché Volgograd? Un motivo potrebbe essere il valore simbolico della città. L’ex Stalingrado, un milione di abitanti, è stata la barricata da dove nel corso del secondo conflitto mondiale l’Armata rossa iniziò a spingere indietro, fino a Berlino, le truppe del Terzo Reich. Quella rincorsa, chiave di volta della «guerra patriottica», viene celebrata ancora oggi come uno dei momenti fondanti della biografia nazionale.

Qualcuno sostiene invece che la ragione di questi attentati, ai quali se ne aggiunge un altro, avvenuto lo scorso ottobre (sei morti e trenta feriti), ha semplicemente una natura dimensionale e logistica. I terroristi hanno colpito Volgograd perché è una grande città (un attentato assume dunque una risonanza maggiore) e perché dal Caucaso settentrionale, il fazzoletto di terra che fa da campo base al jihadismo separatista, non è troppo difficile da raggiungere. Più ancora dei miti, delle dimensioni urbane e delle valutazioni geografiche, è tuttavia il tempo a tenere banco. Il 7 febbraio si aprono le olimpiadi invernali di Sochi e lo scorso luglio Umarov aveva annunciato, con un video, che i suoi miliziani avrebbero sferrato l’attacco alla città. Minaccia, questa, che non va vista solo attraverso il prisma del frastuono mediatico che un tale evento crea. Sochi, appollaiata sul Mar Nero, è anche il luogo della dacia di Putin. Senza contare che Mosca, per l’organizzazione della kermesse, non ha badato a spese (40 miliardi di dollari). Non c’erano infrastrutture, tutto è stato costruito da zero: Sochi è un piccolo concentrato della grandeur putiniana. Un obiettivo sensibile, quindi. E gli attentati di Volgograd – questa la lettura più accreditata – sono un messaggio con cui i jihadisti del Caucaso hanno voluto dimostrare di avere la forza per esercitare la loro violenza anche sulle rive del Mar Nero, impartendo a Putin una lezione indimenticabile. Eppure la questione Sochi non deve distrarre dal nodo cruciale del separatismo islamista del Caucaso, che dura da molto tempo e che non è destinata a esaurirsi né a Volgograd e né in occasione delle olimpiadi, durante le quali potrebbe anche filare via tutto liscio, viste le incredibili misure di sicurezza messe in campo. Nell’estate del 1999, prima ancora che salisse al Cremlino, Putin, allora primo ministro, pronunciò una frase rimasta impressa nella memoria di molti. Era in visita nel Daghestan, una delle repubbliche caucasiche della Russia. I guerriglieri ceceni avevano organizzato un clamoroso attacco oltre confine. Fu l’inizio della seconda guerra cecena. «Daremo la caccia ovunque ai terroristi. E se li troveremo nascosti in un bagno li faremo annegare nel water», disse Putin. Da allora sono passati 15 anni, ma i terroristi sono sempre in prima linea. Volgograd oggi, gli attentati all’aeroporto di Domodedovo nel 2011 e alla metro di Mosca del 2010, la carneficina sul rapido tra la capitale e San Pietroburgo nel 2009, la crisi della scuola di Beslan nel 2004 e quella del teatro Dubrovka del 2002.

L’elenco degli affondi al cuore della Russia, come delle offensive a elevato tasso mediatico, è molto fitto. Ma non ci si deve dimenticare che nel frattempo si combatte senza tregua, quotidianamente, sul fronte caucasico. Come se non bastasse, il terrorismo caucasico ha un profilo internazionale. A più riprese sono apparse analisi relative alla presenza di guerriglieri, specialmente ceceni, sui fronti caldi del mondo. Sono stati avvistati in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria. Dipende, in parte, dalla mutazione del carattere del separatismo caucasico. Inizialmente ispirato dal nazionalismo, ha poi assunto una matrice più orientata al terrorismo.

Il che non significa, come spesso spiegano a Mosca, che c’è stata una piena saldatura tra ribellione caucasica e qaedismo, con conseguente importazione in Russia di fanatismo e tecniche di terrorismo. La tesi, che tende a fare dell’erba un unico fascio, torna utile a giustificare la mano pesante. In ogni caso è vero che i militanti islamisti del Caucaso hanno giocato un ruolo nei conflitti accesi nel mondo. La sostanza, in fin dei conti, è che il Caucaso, per Putin, è una grossa grana.